Chiude Vinitaly 2019 con grande interesse per la produzione biologica. Ma i problemi aperti per il comparto sono tanti e richiedono un cambiamento anche da parte dei consumatori.

A fine Vinitaly il biologico si conferma il vero trend del settore, il metodo di coltivazione in maggiore crescita stando alle stime del mercato. L’International Wine and Spirits Research prevede che nel 2022 i vini bio, naturali e biodinamici raggiungeranno a livello mondiale il 3,6% delle vendite, pari a un giro d’affari di 8,7 miliardi di euro.

Eppure se questa può essere una prospettiva di sviluppo, resta aperta la questione di quanto il biologico sia praticabile in scala industriale.Q

Imputato numero uno, il rame

Uno dei punti riguarda il trattamento consentito contro le principali patologie della vigna, il rame, il cui quantitativo per la Commissione Europea nei prossimi sette anni non dovrà superare i 28 chili. La tendenza è di ridurne di molto l’utilizzo fino alla messa al bando e per il settore è una questione centrale, sebbene pure il convenzionale ne faccia uso, ma non debba rispettare rigorosi limiti di legge per mantenere la certificazione biologica. Produrre senza uso di sostanze chimiche di sintesi, che siano insetticidi, pesticidi, diserbanti, ma anche anticrittogamici e concimi, è una strada promettente, ma ad oggi sono poche le alternative al rame, metallo pesante che però non si degrada nel tempo, si accumula nel terreno e nelle acque.

Marinella Camerani

«Lo dico da anni: la prima questione e che si dovrebbe fare biologico dove è possibile, non estendere vigneti in aree umide o dove la vigna non c’è mai stata – dichiara Marinella Camerani, vignaiola dal 1986 e oggi alla guida di un’azienda vitivinicola di 40 ettari, di cui la metà vitati, suddivisi in tre realtà, Corte Sant’Alda, Adalia e Podere Castagnè –. Nei nostri vigneti non si sono mai usati fitofarmaci e questa è una fortuna dovuta alle caratteristiche geografiche. Dal 2002 abbiamo dei terreni in cui non usiamo più il rame, però sappiamo che alcune annate complicate, come il 2014 o il 2017, non si possono affrontare al momento senza il suo utilizzo. L’importante è contenerlo al massimo, rischiare e fare esperimenti, anche se si dovesse perdere dell’uva e quindi del reddito. Sarebbe necessario che ad esempio la Regione appoggiasse la sperimentazione, sostenendo economicamente i produttori che vi destinano alcuni ettari. Se ne avvantaggerebbero tutti, la ricerca in primis, ambito in cui però poco si investe. Purtroppo viviamo in un sistema in cui è più facile parlare che calarsi nella realtà del problema.»

La richiesta crescente da parte dei consumatori rischia d’altro canto di creare un fraintendimento: il biologico a buon mercato è quasi un controsenso, sapendo quanto richieda maggiore manodopera. «Le grandi catene vogliono più prodotti bio e i grandi produttori desiderano fornirlo, ma non so come si possa fare. Anche mettessimo insieme tutta la produzione delle piccole aziende vitivinicole che fanno questo tipo di coltivazione, non raggiungeremmo i numeri del più grande gruppo cooperativo.»

Uno stand della Fivi

Sperimentare è una scelta determinante per l’azienda familiare Provolo, di Mezzane, che dagli anni Novanta comincia a guardare con occhi diversi ai metodi colturali. Oggi riesce a produrre al cento per cento senza uso del rame i suoi 20 ettari posti a 300 metri d’altezza. Merito della collocazione ventilata, ma anche dell’assenza di impianti di irrigazione, e di concimazioni ad anni alterni con concimi organici a quantità ridotta.

Marco Provolo

«Dallo scorso anno abbiamo sostituito il rame con una nuova molecola, da poco sul mercato, composta da sostanze di base, non tossiche per l’uomo e l’ambiente – afferma Marco Provolo, oggi alla guida dell’azienda familiare, il cui primo Amarone è datato 1954 -. È una scelta più costosa rispetto al convenzionale, ma vogliamo che i terreni nel futuro siano sani.»

«Serve un nuovo patto tra produttori e consumatori per mantenere il pianeta in equilibro», dichiara Corrado Dottori, produttore marchigiano dell’azienda La Distesa, che aderisce a Vi.Te, Vignaioli e Territori, associazione che riunisce produttori di tutto il mondo e promuove il vino naturale, artigianale, biologico e biodinamico. «Il Living climate report afferma che nel 2017 abbiamo avuto un’impronta ecologica pari a un pianeta e mezzo, e le prospettive sono di accelerazione di questo impatto – continua Dottori -. Non mi appartiene la visione apocalittica, ma pongo come tema l’agricoltura in quanto parte fondamentale di questo processo.»

Chiediamoci quindi «quale economia vogliamo praticare. Dobbiamo invertire la rotta anche nel nostro settore e stimolare un’economia che metta al centro il valore. Se produco 100 e vendo a 1 faccio la stessa cosa che produrre 10 e vendere a 10, ma l’impatto ambientale che ne deriva è totalmente diverso. Ecologia ed economia condividono una parola, oikos, ma oggi quella “dimora domestica” è diventato il mondo intero».

Produrre meno, una soluzione sostenibile

Alessandro Dettori

Tutela ambientale e produzione secondo Alessandro Dettori, sassarese, alla guida delle Tenute Dettori, significano una cosa innanzitutto: ridurre le superfici vitate. «I dati Istat dimostrano che c’è complessivamente un progressivo calo dell’estensione vitata dal 2000 al 2017. E il motivo sta tutto nella poca redditività. In Sardegna sono tanti i vigneti fantasma che nessuno segue più. Abbiamo prodotto in Italia negli ultimi tre anni 49 milioni di ettolitri, per un valore di 11,3 miliardi di fatturato. La metà di tutto questo prodotto è vino sfuso, cosa che incide sul prezzo al litro, che mediamente non supera i 2,2 euro. Un distacco enorme con i vini statunitensi, che valgono per l’export 7,19 dollari al litro. Come si può parlare di ecologia se sul mercato contiamo così poco? Usare il diserbante è molto più economico del lavoro umano. Dobbiamo produrre meno e meglio, perché la domanda crescente riguarda il vino di qualità, anche perché è diventato un bene voluttuario.»

Valentino Dibenedetto

«L’uomo fa l’agricoltore da diecimila anni e fino a pochi decenni fa operava a mano o con un aratro che non scendeva più a fondo di 15 centimetri – gli fa eco Valentino Dibenedetto, agronomo e contadino dell’azienda pugliese L’Archetipo –. L’humus fino all’avvento della meccanizzazione è rimasto praticamente intatto per millenni: poter smuovere tanta ricchezza nutritiva ha inciso sull’abbondanza delle produzione, ma in poco tempo siamo passati da terreni ricchi a quantità di humus inferiori all’uno per cento. Oggi coltiviamo deserti verdi, surrogando le mancanze in modo artificiale.»