Non sono molti i migranti residenti in Italia che provengono dall’Etiopia, solo lo 0,16% degli stranieri totali, nonostante siano presenze costanti, più o meno numerose, in tutti gli sbarchi illegali verso il nostro Paese. Gli etiopi fanno dell’Italia una tappa intermedia del loro infinito viaggio e, appena regolarizzati, ripartono verso l’Europa del Nord. Anche se piccoli come numero, l’attuale situazione di conflitto nel Paese offre il pur triste spunto per raccontare meglio le ragioni dietro alle fughe dei migranti dal Corno d’Africa, come da altri paesi subsahariani. Riteniamo utile raccontare di una situazione che è degenerata proprio in questi giorni.

L’Etiopia è uno degli stati più popolosi del Continente africano, con 110 milioni di abitanti, divisi in una decina di diverse etnie, ognuna con lingua e usanze differenti: le più rappresentate sono gli Omoro (35% della popolazione) e gli Amhara (28%). Sono ammesse e rappresentate in quote simili tutte le religioni universali, così come molte minori. L’età media è di 19 anni (47 in italia), con solo il 7% degli abitanti over 55 (da noi sono circa il 36%), e un quarto dei bambini sottopeso (da noi fa notizia il 23% di obesi). Poche le aspettative di miglioramento sociale in un Paese dove oltre l’80% vive di agricoltura di sussistenza, la disoccupazione giovanile è al 30% e gli analfabeti il 48%. La conformazione etnica frammentata ne ha condizionato lo sviluppo, con l’etnia regnante del momento a promuovere aiuti per la propria gente a discapito di tutte le altre. Legare l’identità al territorio e alla rappresentanza politica si è dimostrato utile a mantenere la pace ma molto divisivo, al di là delle buone intenzioni di partecipazione comune alla vita politica.

L’attuale conflitto vede protagonista il Fronte di liberazione del Tigray o TPLF, gruppo etnico minore (circa il 7% della popolazione) fin dall’inizio promotore attivo del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo, un partito esteso a tutte le etnie. Nel 1991, il Fronte Democrativo riesce finalmente a sovvertire il regime brutale e autoritario di Mengistu. Uno stile politico che cambia soltanto nome, non metodi, almeno durante la lunga leadership di Meles Zenawi, capo Tigray amato da molti per l’impulso allo sviluppo del Paese ma uomo totalitario che censura la stampa e limita le libertà civili. Con l’ascesa al potere di Abiy Ahmed, 44enne di etnia Omori, inizia un periodo di transizione allo stato di diritto, con molteplici riforme sociali per un futuro migliore; grazie all’impegno riformista e al raggiunto accordo di pace con l’Eritrea Abiy viene addirittura insignito del Nobel per la Pace nel 2019. Fin da subito Abiy prende le distanze dal TPLF, accusandolo velatamente di crimini terroristici, epurando i Tigray dai ruoli apicali di sicurezza e portando in tribunale ex ministri per gli abusi. Nell’assegnare il Nobel, si è forse preferito dimenticare come Abiy fosse egli stesso ministro durante il governo di TPLF, con incarichi di intelligence, peraltro. Il “lupo” prende il premio ma non perde il vizio per la violenza, si potrebbe dire.

La rottura vera tra il Premier Abiy e i vecchi amici del Fronte Democratico avviene a fine 2019, quando ne ordina nientemeno che la dissoluzione, fondando un nuovo “Partito della Prosperità” cui invita tutte le etnie ad aderire. Un tentativo di cancellare tutto il passato, a cui il TPLF ovviamente si rifiuta di partecipare, ritirandosi nel Tigray, dove rafforza il consenso popolare con proteste di piazza che diventano virali in tutto il Paese, ironia della sorte, proprio sfruttando le nuove leggi di Abiy per la libertà di stampa. Libertà che, per inciso, è durata molto poco: Reuters denuncia proprio in questi giorni una «pericolosa inversione di tendenza» con l’arresto di sei giornalisti etiopi da parte del Governo federale.

In contrasto con le disposizioni centrali di posticipare le elezioni nazionali previste per settembre, ufficialmente a causa della pandemia, il TPLF indice la consultazione regionale, vincendo ampiamente, e da allora considera il Governo di Addis Ababa come illegale e anticostituzionale, per scadenza naturale del mandato. Possiamo considerare il conflitto attuale come il culmine di tanti, ripetuti attacchi reciproci tra i due contendenti, una continua escalation che, nonostante i proclami al dialogo promossi da entrambe le parti, mira ad acuire le tensioni, in una battaglia finale che dia un vincitore reale allo stallo politico che si è creato.

Si è dunque arrivati allo scontro, con l’offensiva armata lanciata dal Governo federale alla regione del Tigray, che dopo una settimana non accenna a diminuire. Rimasti inascoltati gli appelli al premier Abiy per un cessate il fuoco, da parte dell’ONU e dell’Unione Africana, il timore di molti è che il tempo trasformi il conflitto in una vera guerra civile, polarizzando le altre etnie e forse anche superando i confini nazionali.

Con l’Eritrea alleata de facto al governo federale nel disprezzo comune per TPLF, il Sudan alle prese con la propria difficile transizione e l’Egitto, poco più in là, pronto ad approfittarsi della debolezza etiope per risolvere annose questioni sullo sfruttamento del Nilo, è un po’ come «guardare un treno che deraglia al rallentatore», come ha sintetizzato Dino Mahtani, dell’unità di crisi internazionale. Non si può immaginare cosa e quanto avrà portato con sé alla fine della corsa.

Con tutte le comunicazioni interrotte, le uniche notizie sul conflitto arrivano dai canali ufficiali, che parlano di raid aerei federali, bombardamenti a cadenza giornaliera, con centinaia di morti tra i civili. La propaganda si scatena via Twitter con Abiy a scrivere «Non ci fermeremo finché questa junta non sarà nelle mani della giustizia» e il TPLF a replicare che «i combattenti sono pronti al martirio e a trasformare le montagne in un cimitero per gli oppressori». L’esercito regionale vanta almeno 250.000 miliziani ben armati, mentre il governo centrale può contare sulle forze proprie dispiegate in loco e sul probabile supporto di milizie somale, Paese in cui Abiy ha un esercito a supporto di quello locale nella lotta al terrorismo islamista.

Mentre i grandi giocano al Risiko sulle loro mappe, nel Tigray, già terra del più alto numero al mondo di rifugiati di guerra, la situazione sta degenerando, con migliaia di etiopi già fuggiti verso il Sudan e altri che certamente partiranno. La Commissione rifugiati sudanese denuncia l’arrivo di «almeno 10.000 persone negli ultimi tre giorni e numeri complessivi che superano le (nostre) possibilità, vista la scarsità di cibo e di carburante per le pompe dell’acqua, ma anche di ricoveri e assistenza».

In Italia, si diceva, non sono molti gli etiopi a restare, dopo essere approdati più o meno legalmente e aver ottenuto lo status di rifugiato. Status che, anche agli occhi appannati di chi vuol vedere solo un lato della questione, sembra un diritto ineccepibile per persone costrette a partire a piedi, senza niente, per tentare di sopravvivere e di salvare i propri cari.

La comunità internazionale resta impotente a guardare quella che potrebbe facilmente diventare un’epurazione etnica, manda appelli alla pace che cadono nel vuoto; l’inazione rende il mondo complice di un genocidio ed è evidente che non ci colpisce più l’ennesima battaglia tra etnie come ce ne sono ogni altro giorno in Africa. Non dimentichiamo però che l’Etiopia è uno dei Paesi ai primi posti per la cooperazione italiana: ci sono numerose associazioni, private e pubbliche, laiche e religiose, da anni impegnate attivamente sul territorio. Rischiano di veder svanire, di nuovo e ancora, tutto il lavoro svolto e rischiano anche la loro stessa vita, ma a quello ormai sono abituate.

Lo Stato italiano, per un mix di senso di colpa post coloniale e di strategia di contenimento dei flussi migratori, elargisce all’Etiopia ingenti donazioni per lo sviluppo della società civile; c’è da chiedersi se venga mai verificato se i nostri soldi sono davvero utilizzati per il nobile scopo dichiarato. L’impressione di fondo è che cambino i soggetti e cambi l’etnia ma resti costante l’abitudine, da parte del potente di turno, di intercettare gli aiuti internazionali per sostenere le proprie ambizioni guerrafondaie. Creando, di fatto, nuovi migranti.