Un gruppo di ricercatori della University of Ghent, in Belgio, ha recentemente rilasciato uno studio sugli effetti della guerra nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia di cui avevamo già parlato in precedenza.

Sono stati confrontati i dati forniti dalle associazioni umanitarie sul campo e nei paesi confinanti, dove molti profughi sono fuggiti, incrociandoli poi con testimonianze dirette dei sopravvissuti, raccolte direttamente dagli studiosi.

Ne emerge quella che è forse la lista più completa delle uccisioni di massa avvenute nella regione da quanto il Governo centrale del primo ministro Abiy Ahmed ha iniziato l’offensiva, lo scorso novembre.

L’attacco mirava ufficialmente a “ripristinare lo Stato di diritto” in rappresaglia verso un attentato a una base militare federale da parte dei militanti del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray. Operazione militare definita un successo, con i dirigenti del TPLF che hanno lasciato Mekelle, capitale del Tigray, rimpiazzati da un governo leale al primo ministro. Com’era fin troppo facile ipotizzare, finita la “guerra” è iniziata una serie di uccisioni indirizzate alla popolazione civile, una sorta di pulizia etnica.

Un giovane ragazzo etiope – Foto di Zeno Guazzetti

Il rapporto definisce massacro qualsiasi “incidente” in cui perdano la vita almeno 5 civili e ne conta almeno 150 negli ultimi mesi, 20 nell’ultimo mese. Nella ricerca vengono identificati almeno 2000 morti, di ogni età, inclusi novantenni e neonati. Si riporta di un sistematico massacro di civili nella città di Humera, dove per tre giorni le milizie paramilitari o militari (la differenza in Etiopia è molto sottile) hanno ucciso 250 civili colpevoli solo di essere nati e cresciuti nel posto sbagliato.

Il professor Jan Nyssen, che ha condotto le ricerche sul campo e ha una lunga esperienza di Etiopia, definisce la zona un “memoriale di guerra” e accende un faro abbagliante su questi crimini, mostrandone l’ampiezza e l’infinita crudeltà nei 2000 casi documentati. È evidente che le vittime effettive sono molte di più: solo i casi “plausibili” già superano i 7000 individui ma il rapporto si è limitato a raccontare solo quelli certi oltre ogni ragionevole dubbio.

Il gruppo di lavoro non ha smesso di investigare e promette di tenere il sito costantemente aggiornato: è infatti complicato, in molti casi, arrivare a definire se i colpevoli siano di una o dell’altra fazione in guerra, considerando pure le intrusioni di truppe e milizie estere a sostegno del governo federale. Tra gli eventi in cui la colpa è sicuramente identificabile, circa il 45% dei casi riguarda truppe eritree alleate ad Abiy, il 14% militari regolari etiopi e il 5% mercenari dalla confinante regione di Amhara. In molti casi, i testimoni parlano di operazioni congiunte tra i due eserciti alleati. E ci sono anche ritorsioni a colpi di machete del TPLF contro lavoratori stagionali di etnia Amhara.

Mercato etiope – Foto di Zeno Guazzetti

Solo il 3% delle vittime è stata uccisa in raid aerei, quindi è impossibile parlare di errore di lancio o di azioni militari ufficiali. Si tratta in massima parte di esecuzioni sommarie, vagando di città in città, in alcuni casi in numero impressionante: nel villaggio di Askum sono state fucilate oltre 800 persone. Oltre il 90% delle vittime è di sesso maschile, in linea con le aberranti teorie della pulizia etnica che vogliono cancellare il seme dell’etnia “nemica” dalla radice. Una sorte forse peggiore attende le donne, che vengono sistematicamente stuprate: l’Onu riporta oltre 500 denunce di stupro ricevute in 5 cliniche del Tigray nei primi mesi del 2021 ma il numero è sicuramente più elevato.

Spesso le donne non ammettono lo stupro per non incorrere nello stigma sociale, rinunciando anche a quei pochi servizi sanitari disponibili nella regione. Una testimone, fuggita dalla sua fattoria con la famiglia all’inizio della guerra, racconta di aver camminato per un mese prima di sentirsi al sicuro e di aver visto lungo il cammino moltissime donne picchiate e violentate davanti ai suoi occhi, spesso da dieci, anche quindici uomini, abbandonate poi con le ossa rotte e prive di conoscenza. L’ambasciatore Onu in Etiopia, Taye Atskeselassie Amde, ha dichiarato di prendere queste denunce di violenza sulle donne molto seriamente e pare aver iniziato un’investigazione formale.

Ragazzi etiopi armati – Foto di Zeno Guazzetti

Oltre alle uccisioni e agli abusi, l’abominevole programma di annientamento del Tigray include che i raccolti vengano bruciati, le abitazioni distrutte e gli animali massacrati. Le organizzazioni umanitarie lanciano un allarme per il numero crescente di persone che stanno letteralmente morendo di fame. La comunità internazionale si è schierata compatta, chiedendo conto all’Etiopia di quanto sta accadendo, condannando le atrocità diffuse a cadenza regolare anche da Amnesty International e The Associated Press, chiedendo al Governo federale di riprendere il controllo delle proprie milizie, formali e informali. Molti Paesi, tra cui gli Stati Uniti e la UE, hanno inviato propri commissari per esprimere la forte preoccupazione e hanno fatto seguire le parole da sanzioni mirate, nel tentativo di fare ulteriore pressione.

Messo all’angolo da tanta mobilitazione a livello internazionale, a fine marzo, per la prima volta, il primo ministro Abiy ha risposto a un’interpellanza parlamentare promossa dalla magistratura, dichiarando (come riporta l’articolo della Associated Press) che «nonostante le esagerazioni degli osservatori di parte e la pura propaganda priva di fondamento del TPLF, in effetti siamo a conoscenza degli effetti causati dalla guerra», aggiungendo che se veramente ci sono stati abusi chi li ha commessi verrà presto individuato e condannato.

Fumo in lontananza. Paesaggio etiope – Foto di Cristiano Tabarini

Nel frattempo però da più parti viene confermata la notizia che le truppe etiopi e alleate non si sarebbero affatto ritirate, che la guerra insomma sarebbe ancora in corso. Amnesty International riporta l’ennesimo “attacco non provocato” da parte dell’esercito eritreo, con una decina di morti e 19 feriti. È avvenuto ieri, oltre due settimane dai proclami del premier sul ritiro di queste truppe che appaiono ormai fuori controllo. Le promesse di Abiy erano in effetti tanto vaghe da diventare incontestabili: dice che se ne andranno, ma niente su quando e come, cosa alla quale ormai ci ha abituati anche in tema di riforme e di sviluppo.

Da un vincitore del premio Nobel per la Pace di solo due anni fa, ci si aspetterebbe qualcosa di meglio di un “la guerra è una cosa brutta”. Parole testuali.

Foto di copertina di Cristiano Tabarini

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