“Tommy è diventato più grande degli WHO” osservava John Entwistle ragionando sull’immenso successo della loro opera rock, la quale aveva oscurato la stessa fama del gruppo. Luca Zaia ora è più grande della Lega, avendo raccolto con la sua Lista quasi tre volte i voti del suo partito di appartenenza. Non sono bastate le comunicazioni ufficiali in cui si imponeva di non fare propaganda per la Lista Zaia, le candidature “diluite” dei big nelle due liste e gli avvisi ufficiosi e ufficiali ai militanti e iscritti al partito di “tirare” solo per la casa madre.

I veneti si sono espressi assai chiaramente, sconfessando la linea nazionale di Matteo Salvini. Il commissario Regionale ha un bel dire che “in Lista Zaia ci sono leghisti”, visto che non spiega perché gli elettori abbiano snobbato la lista con il simbolo del partito per votare in massa quella del governatore. La domanda ora è: che succederà ai piani alti del partito di Salvini?

Luca Zaia al voto, foto dalla pagina Facebook ufficiale

La dirigenza locale ha dato oggettivamente una pessima prova e il movimento è uscito umiliato dal derby interno con la lista del governatore. In un mondo dove la politica ha ancora un senso ci sarebbero gli estremi per mietere qualche testa.

Altro tema importante: avremo una giunta regionale che durerà cinque anni? O prima della scadenza naturale il governatore transiterà a Roma per un incarico governativo nell’ipotesi di una vittoria elettorale del CDX alle prossime “legislative”? Peraltro non è da prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi che Zaia possa candidarsi a fare l’anti-Salvini, perché non fa parte del suo modo di essere, anche se è indiscutibile che la leadership di Salvini all’interno della Lega esca molto ridimensionata da questa tornata elettorale.

Dal tempo della crisi del Papetee il leader leghista ha tentato in continuazione prove di forza dalle quali ne è uscito ogni volta ulteriormente ridimensionato. Salvini può ancora vantare di essere il segretario che ha portato un partito quasi morto ad essere il perno del centrodestra in Italia, ma per quanto tempo ancora?

Daniele Polato

Venendo a Verona, abbiamo un vincitore assoluto: Daniele Polato. Le sue 10.783 preferenze – praticamente lo stesso numero dell’assessore uscente Donazzan – hanno sorpreso più di un addetto ai lavori, ma bisogna dar atto a Polato di aver espresso una notevole prova di forza e che il suo peso politico in Fratelli d’Italia si colloca ora nella categoria dei “massimi”. Ci sarà da vedere se le rassicurazioni di Giorgia Meloni sul fatto che la rinuncia al seggio senatoriale del defunto Stefano Bertacco, imposta in favore di un esponente non veronese, verrà compensata con un posto di assessore per un veronese in quota FdI, posizione che potrebbe quindi toccare proprio a Polato.

Ma anche così non fosse paradossalmente la sua posizione politica ne sarebbe comunque rafforzata. Rimanendo in consiglio, infatti, non farebbe salire a palazzo Ferro Fini Stefano Casali che, in quanto secondo classificato, gli dovrebbe da regolamento subentrare, lasciandolo fuori dai giochi. E se nel prossimo giro di nomine negli enti partecipati della nostra città l’altro leader di Verona Domani Matteo Gasparato, sul quale pesa pure l’esito di un processo, non dovesse essere riconfermato alla presidenza del Consorzio ZAI, si porrebbe una seria ipoteca sull’esistenza del loro stesso movimento civico che si troverebbe senza posizioni. Come gestirà ora Polato questa sua forza? Potrebbe tentarlo l’idea di candidarsi alla carica di Sindaco di Verona nel 2022? In questo momento è presto per fare questo tipo di riflessioni essendoci ancora troppe variabili in gioco, ma in futuro chissà.

Flavio Tosi riesce a mandare in consiglio regionale il fido Alberto Bozza, ma la conta dei voti con l’assessore Polato è impietosa: 10.783 a 3.569. Con tutti i distinguo del caso, primo fra tutti che Polato era candidato in prima persona mentre Tosi aveva puntato su un suo ex assessore, centrare l’elezione per l’ex sindaco era condizione necessaria ma forse non sufficiente.

Infine il referendum, che ha visto l’affermazione del “Sì” al taglio del numero dei parlamentari con sommo disappunto dell’intellighenzia (spesso e volentieri di sinistra), che ancora una volta si è trovata nella condizione di fare la parte della riserva morale e culturale del Paese, intesa in senso naturalistico. Ancora una volta con la sua battaglia di retroguardia per la difesa della rappresentatività di un Parlamento nel quale siedono nominati, l’intellighenzia ha dimostrato quanto sia lontana dal “senso comune” del Paese, rifiutandosi di capire come l’approvazione manifestata dall’opinione pubblica per il taglio di 345 parlamentari non fosse un trionfo del Movimento 5S che l’aveva proposta, ma piuttosto un sintomo di estrema insofferenza del Paese reale nei confronti della politica per come viene amministrata oggi.

Si illude chi pensa che l’antipolitica sia destinata a scomparire con il progressivo ridursi alla marginalità del partito che più di ogni altro l’ha incarnata: M5S. Semplicemente troverà altre forme con le quali manifestarsi. L’insofferenza emersa nei confronti delle Istituzioni da questo referendum ne è la prova. Insofferenza derivante da un disagio della società civile al quale la politica fino a oggi non ha saputo o voluto dare risposte, arroccandosi nell’autoreferenzialità.

Si potrebbe, poi, ragionare a lungo sulla concretezza delle ragioni del “No”, minate da una fondamentale contraddizione, ovverosia rifiutare in nome della rappresentatività del Parlamento una decisione già presa dallo stesso Parlamento, quindi di fatto mettendo implicitamente in discussione quella stessa prerogativa che si voleva difendere. E si potrebbe pure ragionare lungamente su cosa significhi oggi il concetto di “rappresentanza”, ma ci porterebbe assai lontano. Il punto vero è saper cogliere il segnale che l’opinione pubblica ha dato votando “Sì” al taglio dei parlamentari, e il segnale – molto chiaro – dice che la pazienza sta finendo.