Se “L’architettura è la volontà dell’epoca tradotta nello spazio”, come scriveva Ludwig Mies van der Rohe, sorgono tanti dubbi su cosa in realtà vogliamo che facciano gli architetti in questo nostro tempo. E lo scorso 16 novembre la seconda conversazione del ciclo “Il mestiere dell’architetto”, intitolata “Costruire cittadini, coltivare dubbi” e tenutasi negli spazi delle Cantine Farina a Pedemonte, ha messo al centro la necessità di risvegliare il ruolo innovatore di una professione.

Un elogio dei dubbi, che non solo devono guidare l’azione di chi progetta, ma che risvegliano le persone in rapporto allo spazio, la bellezza, la misura, le relazioni. Il dialogo moderato dall’architetto Daniela Cavallo, responsabile del progetto per l’Ordine degli Architetti di Verona, ha coinvolto un professionista scaligero, Filippo Bricolo, e un collega proveniente da “oltre le mura”, Gianluca Peluffo, considerato uno dei maggiori architetti italiani.

L’esilio della bellezza

Senza architettura non ci sarebbe polis, però la sensazione – non esclusiva degli addetti ai lavori – è che da tempo il compito ideativo dell’architetto si sia perso. «Abbiamo bisogno di un manifesto, di un giuramento come quello di Ippocrate per poter andare avanti? Gli architetti si sono persi?».

Alla domanda di Daniela Cavallo è giunta la risposta limpida di Peluffo: «Stiamo vivendo un periodo di esilio dalla bellezza, un tempo anestetico, e il nostro mestiere si è arreso all’idea di non avere scopi. Credo invece che la felicità delle persone sia un aspetto prioritario, nonostante sia uscito dall’agenda. In Italia quello dell’architetto è diventato un mestiere individualista, condizionato dalla separazione tra etica ed estetica, perché dal dopoguerra seguiamo l’impostazione della cultura protestante per la quale conta principalmente il denaro. La cultura italiana tenderebbe a tenere uniti la bellezza e il concetto di giusto, invece ci pensiamo come sottosviluppati rispetto al mondo capitalistico per il quale queste idee sono separate».

Fare e pensare, ovvero la scissione di una professione

L’architetto che pensa e l’architetto che fa sono quindi diventati due ruoli distanti, ha proseguito l’architetto Bricolo, che è anche professore a contratto al Politecnico di Milano nella sede di Mantova, oltre che curatore di allestimenti museali come quelli per la mostra “Paolo Farinati 1524-1606. Dipinti Incisioni e Disegni per l’architettura”, del 2005 al Museo di Castelvecchio, e per “Luigi Caccia Dominioni, Stile di Caccia”, esposizione del 2002 sempre a Castelvecchio.

«Accadeva già ai tempi di Carlo Scarpa, sebbene lo storico dell’arte Bernard Berenson sapesse esattamente di trovarsi di fronte a un personaggio dalla visione resa concreta proprio dalla sua densità culturale. Se entriamo nella sala di Santa Cecilia a Castelvecchio siamo spinti lungo un asse che porta al fondo dello spazio e percepiamo la tensione che lui aveva creato tra le altre opere esposte. Quella tensione diventa tempo tra una cosa e l’altra, e in quel tempo ci interroghiamo.

Ecco, oggi che viviamo sommersi da un flusso costante di immagini fruite rapidamente, l’architettura ci può mettere in crisi, porci domande, dubbi sul reale, essere un dispositivo visivo che ci aiuta a pensare».

«Scarpa ti porta nel suo modo di vedere le opere d’arte come fossero sue sorelle», ha ribattuto Peluffo, che nel 2011 ha vinto sia il Philippe Rotthier European Prize for Architecture sia l’International Chicago Athenae Prize per il miglior progetto globale, la “Torre Orizzontale”, una nuova sede della Fiera di Milano. «Ci mostra che non si può rinunciare all’autobiografia per parlare alla collettività, non ci sono cose oggettive per risolvere i problemi. Il nostro mestiere è mettere a disposizione la nostra sensibilità per fare in modo che si generi una collettività».

Il video della diretta Facebook dell’incontro “Costruire cittadini, coltivare dubbi”, con ospiti gli architetti Filippo Bricolo e Gianluca Peluffo, coordinati dalla collega Daniela Cavallo.

L’intervista/

Gianluca Peluffo: «L’Italia non guardi solo al passato»

L’Italia è storicamente considerata terra di progetto e di ideazione. Ma oggi l’architettura italiana a che punto si trova?

«L’Italia è un Paese che a differenza di altre culture straordinarie ha avuto tanti ritorni, con molti momenti di grandezza. Adesso vive un tempo anestetizzato e conformista, si è un po’ perso il senso di un mestiere che si fonda sul progettare e sul pensare al futuro. Abbiamo un passato straordinario, ma è un punto di forza se consente di immaginare il futuro e il contemporaneo. Se non c’è volontà politica e culturale diffusa, è difficile per il nostro mestiere avere energia per il futuro. Come diceva Albert Camus, occorre essere in rivolta personalmente, cercare di fare il proprio meglio per essere pronti a quando si sarà di nuovo al centro del mondo, come credo succederà presto».

Gli studenti in Italia vanno all’estero per trovare occasioni di lavoro e crescita. Oltre a questa dicotomia tra formazione e carriera, perché non riescono a portare in patria la loro esperienza?

L’architetto Gianluca Peluffo, a margine della conversazione per il ciclo “Il mestiere dell’architetto” organizzata dall’Ordine degli architetti di Verona.

«I motivi sono culturali e anche la nostra categoria ha delle colpe. Questo è un mestiere non considerato centrale, una cosa strana perché Italia sul costruire ha fatto la sua storia. Nel dopoguerra il Fascismo puntò molto sul ruolo dell’architettura, dopo la guerra invece la nostra repubblica ha deciso di non servirsene per rappresentarsi. Ma è un danno alla collettività: pensiamo ad altri Paesi europei che hanno puntato sull’architettura pubblica, come strumento tramite il quale singolo si sente cittadino. Le nostre città continuano a dare qualcosa per la loro eredità, ma non si può restare con la testa rivolta al passato. I giovani se non percepiscono che l’attualità può dare un contributo se ne vanno. Quando sono all’estero sono tra i più bravi grazie proprio alla nostra radice culturale».

Tutela del patrimonio, costruire in modo non impattante, sostenibilità: sono temi centrali ma quanto è possibile per l’architettura italiana essere geniale, creare spazi opportuni per le persone e avere allo stesso tempo un passo leggero?

«Il recupero delle costruzioni esistenti e del territorio sono di fatto i temi centrali nel nostro Paese. Però temo che l’ecologia sia anche un grande affare come lo è stato il digitale. E quando una cosa si prospetta come un grande business, le classi sociali più povere temo non ne avranno grandi risultati. Ci vuole grande coscienza politica da parte dei progettisti affinché la leggerezza di impatto dell’intervento e il rispetto del territorio stiano dentro alla ricostruzione. Bisognerebbe che le nostre università si concentrassero sul recupero, ci fossero iter burocratici più semplici e norme specifiche per facilitarlo. La ricerca tecnologica in questa chiave è importante, sebbene siano centrali l’aspetto culturale e la ricerca formale. Sono molto preoccupato nel vedere che poi tutti i temi legati all’innovazione tirino in ballo tecnologie nordiche, anglosassoni, ovvero i mondi che comandano finanziariamente. Mi fa un po’ paura e mi fa pensare».

Leggi anche la precedente conversazione del ciclo “Il mestiere dell’architetto” >> Architetti, fra etica e qualità.

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