Una soffiata veloce, da sinistra a destra e ritorno. Un’azione totalmente inutile, ma che lì per lì ti sembra necessaria per essere sicuro che la memory card salvi tutto regolarmente. Abitudine che ci portavamo dietro un po’ tutti, chi dal Super Nintendo, chi dal Game Boy.

Ho quindici anni, mangiato da poco e Metal Gear Solid è il mio videogioco preferito. L’ho già finito un paio di volte almeno, ma conquistare quella base segreta dispersa da qualche parte in mezzo ai ghiacci è comunque il miglior modo per passare un paio d’ore dopo pranzo. Anche perché di lì a qualche giorno sarebbe ricominciata la scuola e allora ci sarebbe stato da studiare.

Se lo ricordano tutti dov’erano quel giorno. Cosa stessero facendo nell’istante in cui le prime notizie hanno cominciato ad arrivare dall’altra parte dell’oceano. Io stavo salvando i progressi fatti con Snake nella missione quando, spenta la Play, la televisione è tornata sui canali normali. Ed erano lì, le torri, inquadratura fissa e due colonne di fumo che salgono verso il cielo.

Fino a quel momento è stato solo un sonnolento pomeriggio passato in attesa della ripresa del liceo. Adesso è diventato l’11 settembre. Anche se degli Usa conoscevi solo l’immagine veicolata dalla tv e su un aereo non ci eri ancora mai salito, lo percepivi che qualcosa, in quegli istanti, stava cambiando. Osservavi le torri sgretolarsi in diretta su ogni canale e, con tutta la famiglia riunita davanti allo schermo fino a sera, sentivi di essere parte del vortice della storia.

Per un ragazzino che fino ad un paio di settimane prima aveva i capelli ossigenati e che continua a mettersi la t-shirt scolorita dei Blink 182, vivere quei giorni è stato come fare un salto nell’età adulta. D’altronde i grandi, in quelle ore, ne sapevano tanto quanto te e sentir parlare di Afghanistan, terroristi, attacchi e strategie, quasi ti catapultava nei racconti del nonno sugli ultimi anni di guerra.

In realtà, come avrei compreso appieno solo una decina di anni più tardi, in quei giorni e nei mesi successivi abbiamo sì assistito alla storia nel suo divenire ma, principalmente, siamo stati il pubblico ideale per una narrazione in grado di condurci mano nella mano verso l’obiettivo desiderato.

Per la prima volta seguivamo con attenzione telegiornali e programmi di approfondimento. I primi quotidiani nazionali acquistati autonomamente in edicola, la tv accesa senza soluzione di continuità. Mille nuove domande ad ogni ora e, nel giro di pochi giorni, le risposte hanno cominciato ad arrivare. Semplici, efficaci e unidirezionali. Perfette per chi naviga a vista.

Talebani, Bin Laden, terrorismo, attacco all’Occidente, tutto così chiaro e lineare. Neppure ci facevi caso al fatto che a spiegartelo erano quelli che, con in mano la stessa gigantesca mole di informazioni che ora ti stanno riversando addosso, avrebbero dovuto quantomeno prevedere un attacco. Ma, che ci vuoi fare, con gli estremisti islamici mica puoi lanciarti in previsioni.

C’è un nemico da abbattere, ed è pure un assassino spietato. Non puoi perdere tempo ad approfondire. Non lo dicono solo gli americani, anche “La rabbia e l’orgoglio” della Fallaci è arrivato quasi subito in casa. E come fai a darle torto? Lei il mondo l’ha girato davvero , quella gente la conosce e poi gli immigrati pisciano in giro anche qui da noi.

Quante certezze ci hanno accompagnato in quei mesi. E in quelli successivi, passando per Nassiryia, l’Iraq e le armi chimiche che non ci sono. Fino a quando l’Afghanistan non è più notizia, sovrastata da mille altre preoccupazioni. Anche perché, pure a New York, hanno già ricostruito tutto.

Avere quindici anni in quei mesi estivi del 2001 non è stato male. Sei in quell’età dove il mondo è bianco o nero, categorie stagne, e a sentire la tv non c’è neanche mezzo dubbio su da che parte stanno i buoni. Sotto la bandiera a stelle e strisce, più o meno dalla stessa parte nella quale si trovavano un mesetto e mezzo prima, a Genova. L’abbiamo deglutita così, liscia come acqua di fonte.

Passano gli anni, i mesi e se li conti anche i minuti, dice Faber, ed ha ragione. Perché non esiste conoscenza senza il tempo necessario a modellarsi un minimo di pensiero critico. E per farlo, per andare a guardare dietro le pieghe di una verità già scritta, devi accettare che il bianco e il nero non esistono. Che di grigio ce n’è un mare, soprattutto quando parli di geopolitica. A quel punto, le cose arrivano.

Sono arrivati i libri di Gino Strada, le sue testimonianze e l’ammirazione incondizionata. Capisci che di fianco all’Afghanistan c’è il Pakistan, che Talebani e Al Qaeda non sono sempre sinonimi e che in certe storie per non perdere il filo devi tornare indietro di anni. Incontri termini difficili, tipo Deobandi, ma necessari se vuoi comprendere dove nascono certe storture del pensiero umano. Dove cova il fuoco del risentimento e, passo successivo, dell’estremismo. Capita anche di scoprire figure in grado di affascinarti,  Aḥmad Shah Massoud, un principe poeta come quelli dei racconti. Oriana, pure lei è arrivata, eccome. Libri, articoli e interviste dagli anni ’60 e ’70. Arricchimento vero.

Per il sottoscritto l’11 settembre è iniziato un viaggio, che prosegue ancora, alla scoperta del mondo e dei suoi protagonisti. Uno di quei viaggi lenti, dove devi prenderti tutto il tempo di metabolizzare. Di digerire. Come nei pomeriggi di fine estate, appena dopo mangiato.  

© RIPRODUZIONE RISERVATA