Quando entriamo nell’arena gladiatoria dei social, la semplificazione dei problemi – ovvero le scorciatoie del cervello – sono all’ordine del giorno. Se in Afghanistan una bambina viene data in sposa è una questione interna di quel Paese, delle loro usanze e tradizioni che vanno rispettate: un discorso che, nel disinteresse della sorte della povera ragazzina, ha come implicito obiettivo rivendicare il modo di vivere italico-occidentale nei confronti di culture ritenute non affini. Il presunto relativismo culturale diventa così qui strumento di affermazione del proprio modo di intendere il mondo ed è per questo che quando lo stesso matrimonio forzato coinvolge una ragazzina straniera, in questo caso però residente in Italia, si trasforma in sopruso da impedire e condannare.

La Sposa bambina, foto dell’anno 2007

Una questione di cultura, quella che la Treccani definisce per l’individuo come “l’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio.” e per la società come “complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico.”

Una questione complessa. Consideriamo, infatti, che la partita dei diritti umani, di fatto, si gioca almeno su tre livelli.

Il primo, quello universalistico, è la lettura che l’Occidente – sulla scorta della sua esperienza coloniale – che si ritiene paradigma di civiltà, espressa dall’Europa nel corso dei secoli e ora giunta ad essere, in ottica progressiva e progressista, l’attuale (perfettibile ma insuperato) modello universalistico. Tutte le altre culture, in quest’ottica, si muoverebbero lentamente e inconsapevolmente sulle orme degli esiti culturali e civili che l’Occidente ha già raggiunto e si relazionerebbero oggi in modo spesso problematico con questo modello.

Ragioniamo per esempi: in Occidente la legislazione protegge i minori di 18 anni in quanto bambini. In concreto, in Italia un minore di 14 anni non può esprimere un consenso valido per disporre della propria libertà sessuale. Ma in paesi come la Sierra Leone, dove l’aspettativa di vita è di 50,8 anni (Italia 84,7) sarebbe un diritto con effetti socialmente dirompenti. In Lesotho, ancora, il diritto allo studio – sempre garantito in Occidente ai bambini fino ai 16 anni (Italia) e 18 (Belgio, Paesi bassi, Portogallo e Germania) – potrebbe essere percepito come irrealistico a fronte di un’aspettativa di vita di 42,6 anni. Quindi, che si fa? Si può imporre alla Sierra Leone e al Lesotho il rispetto della Dichiarazione Universale dei Diritti del Fanciullo (art. 9) senza intervenire in modo massivo ed invasivo sulle loro strutture economiche, sociali, culturali?

Il secondo, quello nazionale, nasce dalla constatazione di Hannah Arendt che il “diritto ad avere diritti” nasce dall’appartenere a una comunità organizzata. Questo però implica che, se lo Stato è la fonte e il garante dei diritti dei suoi componenti, deve allora controllare, limitare o espellere coloro che cercano di migrare da un’entità organizzativa all’altra. Vexata quaestio: come conciliare l’idea di diritti universali con quelli, esclusivi o privilegiati, derivati dall’appartenenza a una nazione? È un problema che ci tocca da vicino nelle questioni locali, visto come la semplice definizione dei parametri per l’assegnazione delle case popolari (a Ravenna, per esempio), se decide di privilegiare la residenzialità e quindi la comunità ospitante, crea un vulnus al concetto di uguaglianza così come, se non applicato, lede il principio di nazionalità e la volontà dei suoi cittadini. Ampliamo il discorso: se è vero che l’internamento dei giapponesi con e senza la cittadinanza statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale non vale in quanto precedente alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del ‘48, l’attuale fenomeno migratorio dal Nord Africa crea una massa di persone i cui diritti sono immobilizzati nei centri di raccolta e poi sospesi in un limbo politico e sociale, specie quando diventano “clandestini”.

Nel caso ulteriore in cui, invece, piccole comunità locali omogenee si trovino all’interno di un territorio rivendicato da una sovranità più ampia, la ritrosia degli Stati a dare loro un riconoscimento risulta comprensibile: per l’Italia, è paradigmatico il progressivo monolinguismo dell’Alto Adige e la riduzione alla marginalità della sovranità italiana sull’area e della popolazione che a questa sovranità fa riferimento. Il risultato paradossale è che il principio di uguaglianza che lo Stato dovrebbe garantire ai suoi cittadini viene meno a favore di una minoranza, in contrasto con l’art. 2 legge Costituzionale, “Nella regione è riconosciuta parità di diritti ai cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico al quale appartengono, e sono salvaguardate le rispettive caratteristiche etniche e culturali”.

La terza questione, più ampia, è sociale, etnografica e culturale. La logica occidentale nei casi di matrimoni forzati, delle mutilazioni genitali, del velo o del burqa, tende a leggere il problema come una violenza su chi – per noi – non è ritenuto abbastanza grande per decidere da solo; oppure, si riduce la questione a una violenza corporale, in cui si delineano i ruoli di vittima e un carnefice. In tutto questo, tuttavia, ignoriamo il contesto sociale per cui queste persone talvolta subiscono ma talvolta accettano in nome delle aspettative sociali. Questo ci porta a vivere nel concreto del nostro tempo una serie di contraddizioni: l’Europa condanna giustamente  le mutilazioni genitali femminili senza incertezze ma accetta senza remore (né giustificazioni, peraltro) la circoncisione maschile; l’Europa ritiene il velo un simbolo della sottomissione femminile mentre, di contro, nasce un movimento femminile mussulmano che vede nel hijab un tentativo (in questo caso della Francia) di “regolamentare i corpi delle donne”, che – ironicamente – è esattamente quello che l’Europa pensa dell’hijab e quindi dell’Islam. Persino il concetto di bambino inteso come sola vittima traballa: molti dei bambini-soldato della zona sub-sahariana, dopo riaver ottenuto la libertà e il diritto ad essere solo bambini, sognano con nostalgia la loro esperienza (spesso fatta di omicidi, torture, stupri e violenze) e si ripromettono di fare da grande i soldati.

Ci muoviamo insomma tra Scilla e Cariddi: da una parte un individuo, atomizzato, portatore dalla nascita di diritti inalienabili stabiliti dall’Occidente e che dovrebbero essere garantiti ovunque dall’Occidente (con quanto entusiasmo da Stati che si ritengono Stati-civiltà come Cina e Russia, lo abbiamo visto); dall’altra lo stesso individuo, dai diritti universali compressi, all’interno di una dialettica con la sua comunità di appartenenza.

Anche qui, per ragionare sulla complessità della questione, prendiamo l’art. 34 della “Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni” del 2008: “I popoli indigeni hanno diritto a promuovere, sviluppare e mantenere le loro strutture istituzionali e i loro propri costumi, spiritualità, tradizioni, procedure, pratiche e, laddove esistano, i loro sistemi o costumi giuridici, in conformità con le norme internazionali relative ai diritti umani”: ottimo, sennonché un popolo che rivendichi nella disuguaglianza o nell’asimmetria tra alcuni dei suoi gruppi costitutivi un suo elemento caratterizzante vedrebbe riconosciuto il diritto a promuovere ciò che di fatto gli è vietato.

Come si è visto, la scelta dei principi da difendere e diffondere è complessa e, di conseguenza, ancor di più la modalità corretta per garantirli perché il principio astratto si scontra con la realtà. In Italia lo scenario è quello di un sistema giuridico (e quindi giudiziario) che a suon di sentenze vanifica gli sforzi di politici locali o nazionali di rispondere agli interessi dell’elettorato e al principio di nazionalità; in Francia, invece, vengono emanate leggi nette anche se contrastate a cementare un modello di Stato laico che vorrebbe limitare i movimenti e le fedi ritenuti incompatibili con alcuni diritti umani, anche nelle minute manifestazioni pubbliche dei singoli; persino la Svezia, a febbraio 2021, ha riconosciuto che la gestione dell’integrazione “spontanea” ha fallito e imporrà “corsi sui valori occidentali” obbligatori specie per i migranti, rifugiati e richiedenti asilo di fede islamica, visto il crescere delle aggressioni verso le ragazze svedesi.

La Cina, in nome dell’unità etnica, della concordia, dell’armonia e del pericolo del terrorismo sta da anni cancellando la cultura e la società degli Uiguri e, forse, la loro stessa differenza etnica attraverso una strategia criminale di assimilazione che l’UE ha condannato nel 2021 con una serie di sanzioni. Una parte dell’identità Uiguri è la fede islamica e non a caso la Turchia ha preso posizione contro la Cina. Turchia che, nel nome dell’Islam e della tradizione, sta facendo enormi passi indietro rispetto ai diritti umani. UE che, nei suoi Stati membri, cercando di trovare un impossibile compromesso tra diritto alla fede con fedi incompatibili coi diritti.

Il mondo non è solo un posto ingiusto, ma pure molto complesso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA