L’ordinanza di Luca Zaia chiude le scuole superiori fino al 31 gennaio, prolungando la Didattica a Distanza (DaD) di un altro mese almeno (“Del doman non v’è certezza” cantava Lorenzo De Medici nella Canzona di Bacco), proprio quando si cominciava a pregustare un piccolo assaggio di normalità anche per la fascia d’età tra i 14 e i 18 anni. Per questo, il 7 gennaio 2021 la Rete degli Studenti Medi di Verona ha lanciato un video-appello e, insieme al comitato Ridateci La Scuola, ha organizzato un flash mob davanti al Liceo Montanari e al Palazzo della Regione Veneto per chiedere che non siano soltanto i centri commerciali e le aziende a poter rimanere accessibili. A dimostrazione di uno profondo stato di frustrazione degli adolescenti che, non  a torto, si sentono i soli a pagare il peso dell’emergenza e percepiscono la propria voce come irrilevante.

Lo conferma anche il rapporto Ipsos (per Save The Children) su un campione di 1000 giovani tra i 14 e i 18 anni: la maggior parte di loro ritengono di aver letteralmente “sprecato un anno” della loro vita e di non aver potuto vivere, ad esempio, le loro sacrosante esperienze tipiche dell’età. E che tutto questo, in definitiva, sia colpa delle scelte sbagliate degli adulti. Adulti che, nonostante non sappiano gestire l’epidemia, possono almeno uscire per andare al lavoro, mentre i ragazzi sono costretti a studiare e ascoltare le lezioni esclusivamente da casa. Capendo in questo modo anche il valore – forse fino a poco tempo fa dato un po’ per scontato – di poter incontrare e vedere gli amici fuori dalla scuola. Risultato: “stanchezza (31%), incertezza (17%) e preoccupazione (17%) sono i principali stati d’animo che hanno dichiarato di vivere gli adolescenti in questo periodo, ma anche disorientamento, apatia, tristezza e solitudine.” E la paura che, per uno su quattro, non passerà nemmeno nell’era post-vaccino.

Slide di riepilogo dal rapporto Ipsos per Save The Children “I giovani ai tempi del Coronavirus”

E i docenti? Il rapporto “La scuola in transizione: la prospettiva del corpo docente in tempo di Covid-19” di INAPP, su un campione di 800 docenti di ogni ordine e grado, mostra una scelta di campo in linea con la dimensione “adulti”: “Le scuole e le Università si devono tenere chiuse fino a emergenza sanitaria rientrata per il 70,4% dei docenti” è l’opinione prevalente. Allo stesso tempo prevale l’opinione che si debba procedere con la DaD, magari con uno standard unico (lo sostiene l’82,4% degli insegnanti) e con relativa formazione specifica ai docenti (lo pensa il 90%). DaD per certi aspetti contraddittoria: il 45% dei giovani del campione Ipsos fatica a seguirla produttivamente, mentre il 52,2% degli insegnanti per INAPP afferma invece che “con la DaD alcuni miei studenti più isolati o taciturni o poco motivati si sono rivelati più partecipativi e coinvolti”.

Incidono su questi dati gli atavici problemi del mondo della scuola: a cominciare dall’inadeguata dotazione strumentale e la scarsa alfabetizzazione informatica di molti insegnanti (che, come visto, ne hanno coscienza). D’altronde, con un corpo docente con la maggior presenza di over 50 fra i paesi OCSE (il 59% degli insegnanti dalla scuola primaria alla secondaria di II grado ha più di 50 anni) e con la percentuale più bassa di insegnanti con età compresa fra i 25 e i 34 anni (0,5%) è comprensibile che i ragazzi dichiarino, nel rapporto Ipsos, che il 37% dei docenti delle superiori non ha introdotto alcuna novità rispetto alla didattica in presenza.

Paradossalmente, questa scarsa capacità di innovarsi degli insegnanti non è per pregiudizio, anzi: il 46,5% vorrebbe continuare a usare la tecnologia per attività come i colloqui con studenti, colloqui con genitori, consigli di classe e il 73,6% vorrebbe continuare a usarla anche nella didattica in presenza. Ma la sola volontà non basta e alla carente capacità digitale dei docenti si somma la cronica inadeguatezza tecnologica della nostra scuola, come pure delle reti domestiche.

Concludendo, lo scenario è quello di un corpo docente volenteroso e in linea con la linea prudenziale di gestione dell’epidemia; che si rende conto del prezzo che i giovani stanno pagando ma che – va detto – è sostanzialmente privo di qualsiasi peso decisionale per condizionare le scelte del Governo o del Ministero dell’Istruzione e di dati univoci (come tutti noi) sulla diffusione del contagio negli istituti scolastici. D’altra parte, i giovani non percepiscono gli insegnanti come avversari – pur evidenziandone i limiti – e capiscono la ragion di stato delle scelte del Governo e di Zaia; non possono però ignorare gli effetti della chiusura delle scuole solo in termini di preparazione scolastica, ma devono valutarne gli effetti pure sulla loro vita sociale.

In ogni tempo le strategie di contenimento del contagio hanno un costo sia economico che umano, ma servono per garantirci un futuro: nella pestilenza del 1348, per esempio, la città di Milano scelse di murare la soglia di quelle abitazioni in cui si fossero manifestati casi di pestilenza, altro che isolamento fiduciario. Ma se gli adolescenti si rassegnassero a vivere senza relazioni, annoiati e frustrati, che adulti saranno e che futuro potranno costruire?