Una semplice culla può proteggere i neonati, generare lavoro in un territorio scarso di opportunità, rendere le madri indigenti più autonome e indipendenti. Il progetto Kokono™ può essere riassunto in queste poche righe ma senza sminuire il suo valore inestimabile.

Kokono, che in un dialetto ugandese significa “zucca vuota” e di cui avevamo già parlato in queste pagine, è la prima culla biodegradabile pensata in Italia e costruita in Uganda, per salvare le vite dei bambini dagli 0 ai 12 mesi.

E in occasione della Festa della Mamma è stata lanciata una raccolta fondi aperta fino al 31 maggio per costruire in loco dei lettini portatili, con scocca biodegradabile e dotati di zanzariera, utili a ospedali, orfanotrofi, campi rifugiati, Ong, comunità e famiglie fragili del Paese africano.

In contesti poveri, infatti, i bambini nel primo anno di vita non hanno spazi fisici dove stare o dormire e vivono per terra per quasi l’80% del loro tempo, esposti ad attacchi di animali, urti accidentali dove non c’è illuminazione o soffocamento da co-sleeping, poiché si dorme tutti nello stesso letto, se disponibile, sotto l’unica zanzariera, sempre che ci sia.

Un’idea unica nel suo genere perché è stata concepita durante due workshop di ricerca condotti a Kampala, Gulu, Hoima e Fort Portal in cui si sono ascoltati i bisogni e le preferenze dei locali.

Le diverse funzioni della culla la rendono versatile, così da essere usata come box-gioco oltre i 12 mesi, e infine come bacinella per il bagno fino ai due anni d’età. Il fatto che un oggetto sia multiuso è proprio tipico di contesti poveri, dove non ci sono risorse per acquistare tanti oggetti diversi che fanno cose simili.

Abbiamo raggiunto Lucia Dal Negro, veronese e fondatrice di De-Lab, società Benefit e ideatrice di questa iniziativa virtuosa.

Dopo una settimana dall’inizio della vostra campagna di crowdfunding per Kokono™ su Produzioni dal Basso, vi aspettavate un risultato simile?

«In realtà no, perché questa per noi è la prima esperienza di crowdfunding e non avevamo riferimenti a cui paragonarci. Poi il momento non è esattamente dei più semplici, quindi abbiamo pensato di darci un obiettivo piccolo, anche per passare il messaggio che ogni contributo non sarà andato sprecato. Nel caso specifico di Kokono™, poi, questo percorso si inserisce dentro un progetto di cooperazione che è stato approvato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), quindi tutta l’impostazione mira a generare degli impatti duraturi nel tempo, anche attraverso processi di fundraising paralleli, come appunto la nostra raccolta fondi lanciato nel mese dedicato alle madri.»

La campagna andrà fino a fine mese: cosa farete se supererete il vostro obiettivo di 100 culle?

«L’abbiamo superato domenica scorsa, dopo una settimana esatta dall’avvio della campagna. Non cambierà nulla, anzi, continuando a donare potremo semplicemente avere più risorse per produrre più culle. Magari arriveremo a 200 che corrispondono a 6.000 euro. Speriamo di farcela.»

Da quando è iniziato il lavoro per il progetto Kokono™ cosa è cambiato anche alla luce della pandemia?

«Moltissime cose. Diciamo che abbiamo dovuto imparare a praticare molta flessibilità ed essere molto zen. Il 2020 è iniziato malissimo, con l’invasione delle cavallette che ha distrutto le piantagioni di banana di cui Kokono™ doveva essere fatto inizialmente, sempre un materiale locale e naturale. Poi è arrivato il Covid-19, che ha bloccato le operazioni produttive e ridotto il potere d’acquisto dei locali. Abbiamo quindi deciso di ripensare completamente il prodotto, non il progetto, scegliendo un altro materiale, una plastica biodegradabile e ottimizzando alcuni elementi della culla in modo da renderla ancora più economica per la fascia medio-bassa della popolazione, che si è decisamente impoverita dopo i lunghi mesi di lockdown. Poi a gennaio ci sono state le elezioni nazionali, che in Africa non sono mai veramente tranquille, quindi abbiamo dovuto aspettare la stabilizzazione del processo per riprendere i contatti con i nostri partner. Insomma, abbiamo portato molta pazienza.

Da marzo finalmente abbiamo ripreso le attività e abbiamo deciso di donare il primo lotto prodotto ad associazioni ugandesi che operano in zone dove la nostra distribuzione non può arrivare, perché remote o di frontiera. In certi distretti lontani dalla capitale il bisogno è altissimo e quindi abbiamo creato delle partnership con Ong locali. Un altro modo per dimostrare che il profit e il non-profit, anche condividendo lo stesso prodotto, possono lavorare in sinergia anziché in competizione.» 

Lucia Dal Negro al lavoro in Uganda

Ad oggi quante comunità e quante lavoratrici sono impegnate nella produzione delle culle?


«La produzione sarà di tipo industriale, per tenere bassi i costi di lavorazione e, di conseguenza, il prezzo finale. Le donne saranno coinvolte nella fase di distribuzione del prodotto in loco, grazie alla collaborazione con Amref Health Africa, l’Ong internazionale che è partner del progetto proprio per la rete di distribuzione femminile. Partiremo con circa 15 ragazze, a cui si aggiungeranno le referenti del magazzino e le educatrici. All’inizio partiremo nelle zone periferiche di Kampala, la capitale dell’Uganda, che come tutte le megalopoli del Sud del Mondo ha delle vastissime periferie dove la povertà è altissima e il rischio sanitario e di sicurezza per i bambini lo è altrettanto.»

In quanto tempo saranno realizzate e si attiveranno anche nuove sinergie in Uganda rispetto al progetto iniziale?


«Le culle saranno pronte a settembre e la distribuzione inizierà immediatamente. Certo, studieremo nuovi modi di distribuzione delle culle anche in partnership con altri prodotti locali nel settore della prima infanzia. Inoltre ci piacerebbe lavorare con istituzioni locali per sviluppare dei moduli educativi sul tema, che abbiamo chiamato EDU-KO, per affiancare al prodotto (la culla) anche un servizio di formazione sulla gestione dei primi mesi di vita dei neonati. Lo studio del modello di business inclusivo, che sostiene Kokono™, è la parte più complessa ma anche la più creativa. Un continuo processo di aggiustamento delle ipotesi e di test sul campo. Per fare innovazione, anche in contesti di povertà, occorre infatti tanto ascolto e la capacità di assumersi dei rischi ragionati: non si può innovare se si seguono sempre gli stessi modelli.»

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