Laureata in Relazioni Internazionali con specializzazione in Cooperazione e Sviluppo all’Università Cattolica di Milano, Lucia Dal Negro ha saputo in pochi anni, dal 2006 al 2012, costruire un bagaglio di saperi e conoscenze uniche, tra Milano, dove ha ottenuto un dottorato, Londra, dove ha preso un master in Ambiente e Sviluppo alla facoltà di Geografia della London School of Economics, e Berlino. Nel 2014 ha fondato la sua DeLab a Verona, città natale, dove ha iniziato un lungo percorso che la vede attualmente impegnata nella progettazione sociale in materia di business inclusivo, innovazione sociale e comunicazione sociale.

Lucia ti occupi di business inclusivo, cioè del coinvolgimento delle imprese profit in progetti di cooperazione allo sviluppo. In Italia sta prendendo piede o è ancora difficile spiegare il tuo lavoro?

Lucia Dal Negro

«In realtà sta prendendo piede e a questo abbiamo contribuito anche noi di DeLab quando, nel 2017 abbiamo collaborato con l’Agenzia Italiana della Cooperazione allo Sviluppo che in quell’anno stava attivando un ufficio dedicato al coinvolgimento del profit alla cooperazione allo sviluppo, che è la base di partenza del modello di business inclusivo. È una frontiera nuova in Italia, presidiata da DeLab da ormai 6 anni e le cose, da allora devo dire, sono molto cambiate. C’è molta più attenzione, anche se questo non significa che sia più semplice lavorarci. Mettere insieme gli interessi del privato, del pubblico e del no-profit è complesso.»

Cosa avete scoperto nel 2017 affiancando l’agenzia della cooperazione italiana?

«Abbiamo realizzato per loro la prima mappatura italiana sul tema del coinvolgimento degli attori profit in materia di cooperazione allo sviluppo, contattando più di 500 aziende, tra cui anche veronesi: i dati emersi sono stati incoraggianti, per quanto piccoli, come all’inizio di qualunque nuovo processo. Tra gli imprenditori nessuno ha detto che il tema non interessi, anzi, poi ovviamente si aspettano che tutti facciano la loro parte, a partire dalle istituzioni che – per esempio – devono aiutare il privato evitando tempi lunghi di attivazione dei progetti. Le tempistiche del pubblico non sono uguali a quelle delle imprese, perciò, se si vuole coinvolgerle, è importante velocizzare i tempi di reazione mantenendo sempre alta l’attenzione sull’argomento, evitando che passi di moda.»

Per quando riguarda il business inclusivo come ne esce il Veneto da questa mappatura?

«I dati a disposizione sono aggregati per sei regioni italiane, da cui emerge che a oggi circa il 10% dei rispondenti ha attivato progetti di cooperazione allo sviluppo e il 40% lo vorrebbe fare nel prossimo futuro: un dato molto incoraggiante che non va sprecato (la mappatura si può consultare gratuitamente qui: https://www.delab.it/pubblicazioni/, nda).»

Uno dei lavori recenti di cui ti stai occupando, presentato all’ultimo Food Economy Summit di Fondazione Feltrinelli a Milano, riguarda il settore della ristorazione. Di cosa si tratta?

«Si tratta di una sperimentazione che dura un mese e prova a capire quale sia la miglior policy per evitare lo scarto alimentare, se quella imposta dall’alto o quella in cui è il cittadino che sceglie se ridurre il proprio scarto con una foody bag oppure ordinando meno, o porzioni più piccole. Quando si affrontano temi legati ai comportamenti individuali, è importante capire se funzionino di più approcci impositivi o concilianti… questo è un classico dibattito di policy. DeLab senza preconcetti ha voluto testare la risposta in un territorio, quello salentino, dove c’è turismo internazionale e una gastronomia famosa, coinvolgendo una trentina di ristoranti. La cosa sorprendente è che mentre costruivamo le reti sul territorio si sono aggregati a questo esperimento un sacco di altri attori, felici di aver scoperto una nuova modalità originale di raccontare la ristorazione responsabile.»

A Verona questo tipo di ricerca sarà proposta?

«Sicuramente, magari per quanto riguarda il vino… in questo caso opereremmo in Veneto, in primis Verona, e in Piemonte. Per il cibo, dopo Puglia, Campania e Sicilia.»

Nel 2014 avete ideato Voilà, un modo nuovo di comunicare valori sociali nel Web. Perché è ancora così difficile parlare di profit in determinati settori che sembrano “marchiati” dal volontariato o dalla direzione di attività pastorali?

«È ancora molto diffusa la pratica del donare “senza farsi vedere”, che è una cosa legittima e comprensibile, ma in realtà si riduce la possibilità che l’elemento sociale sia valorizzato “facendo scuola” in altri territori e con altre imprese o addirittura filiere. Evitare di parlarne, un po’ per pudore o per non abitudine, significa perdere l’occasione di raccontare delle storie interessanti che possono ispirare altri a fare del bene. Il sociale è un elemento di innovazione all’interno delle aziende, facilita il rapporto con i dipendenti, con i fornitori, aumenta la reputazione del brand. Non si tratta di azioni che finiscono esclusivamente nel ritorno d’immagine ma sono sempre cose belle, sensate: basta raccontare con metodo e serietà, progettando appunto la comunicazione sociale.»

Voilà aveva raccontato la bellezza nel mondo della disabilità in modo innovativo, con ClioMakeUp, ossia attraverso un tutorial di trucco in Lis, la Lingua dei segni. Lo hai messo in pratica anche in città?

Progetto “In parole povere”

«Sì, con l’azienda dolciaria Matilde Vicenzi attraverso tre video ricette in Lis. Successivamente lo abbiamo replicato a Milano. Dopo Voilà, sempre nello stesso settore, abbiamo progettato il laboratorio creativo In parole povere per raccontare l’azienda dal punto di vista dei bambini esposti a povertà educativa. Anche questo ultimo progetto mi piacerebbe portarlo, anzi riportarlo, a Verona.»

Tanto studio, ricerca e mappatura… a livello operativo in quale progetto ti stai impegnando in questo momento?

Al lavoro in Uganda

«Stiamo avanzando con un progetto dedicato alla salute materno infantile in Africa subsahariana. Lavoreremo con imprese e istituzioni che ci aiuteranno a diffondere un dispositivo “Made in Italy” che previene le principali cause di morti e lesioni nei bambini sotto l’anno di età. Un progetto che abbiamo condiviso con diverse comunità in Uganda dove torneremo, perché bisogna sempre mantenere le promesse.»

Ci racconti la scelta di diventare società benefit?

«Diventare società benefit è stato un po’ come chiudere il cerchio: racconto e sviluppo progetti per imprese virtuose e “dare il buon esempio” mettendomi nei loro panni e replicando io stessa il modello che promuovo è stata la chiave di volta. Poi l’Italia è stato il primo Paese a recepire la forma giuridica delle società benefit, dopo gli americani che l’hanno inventata, nel gennaio 2016. Sono imprese srl ma devono legare ogni aspetto del loro business a degli impatti sociali positivi. Per esempio nel nostro caso per qualsiasi spostamento abbiamo scelto di usare sempre e comunque i mezzi pubblici. E Milano su questo dà una grossa mano.»

Dopo sei anni a contatto con il mercato, imprenditori e grandi realtà, hai ancora sogni nel cassetto?

«Ne ho ancora una marea. Te ne dico uno: avere una sede aziendale che funzioni come un porto di mare, grande, sempre aperta e sempre piena di gente. E dove si possa scrivere sui muri.Questa è una mia mania.»

Verona ti ha visto crescere e mettere le basi della tua impresa… ma non sei rimasta. Cosa ti manca della tua città?

«Sicuramente il concetto di prossimità, delle persone e dei luoghi, che produce sicuramente efficienza, cosa invece che mi risulta complessa a Milano. E poi… un armadio grande.»

Cosa invece proprio non ti manca?

«Tutti i turisti che intasano le strade e i marciapiedi quando ho fretta, cioè sempre!»

E di Milano cosa ti piace?

«Mi piace quello che in realtà non mi piace: le giornate non finiscono mai, ci sono un sacco di stimoli, e io lavorerei interrottamente. Supermercati sempre aperti, attività di mio interesse ad ogni angolo. Quando arrivo a Verona, in effetti, anche per questo riesco a staccare un po’ la spina.»