Io era tra color che son sospesi

Così viene descritta da Dante la situazione delle anime relegate nel Limbo. In questo endecasillabo abbiamo tutta un’eternità. Eppure questa sospensione noi iniziamo a conoscerla, temerla, forse anche detestarla. Una sospensione che è stasi, attesa, tensione verso qualcosa che non sappiamo ben definire.

Questo il potere dei classici. Quello di trovare sempre le parole più opportune per indicarci dove siamo.

In questo settecentenario dantesco tendiamo a prendere il poeta per interrogarlo, quasi come fosse una sibilla, un libro delle risposte. In questi ultimi tempi più volte ho sentito dire che Dante è “nostro contemporaneo”. Io credo che nessun classico ci sia contemporaneo (e per fortuna). Credo che ogni classico ci invii messaggi da una sorta di altroquando. Penso che i classici non ci siano vicini, anzi, in qualche maniera, se li ascoltiamo, ci spingono ad andare oltre quello che siamo.

Dante non fa eccezione.

Credo che, nella sua condizione di poeta, mistico, visionario, non sia stato contemporaneo nemmeno nel suo Medioevo che tanto ben rappresenta (e tanto bene smentisce). Eppure le sue terzine risuonano tremendamente attuali. Non tanto per confermarci nelle nostre scelte, ma per indicarci cosa non possiamo più accettare.

In queste roulette diaboliche (da “dia-ballein”, “separare”) di zone che cambiano dal rosso al giallo, come non intravedere un contrappasso di qualche burocrate infernale (e sono sicuro che Minosse se la stia ghignando adesso). Non sono forse certe pene emblema di questi nostri tempi stranianti?

Gli avari e prodighi che come scarabei stercorari sono costretti a spingere massi su per una salita, in una sorta di coreografia meccanica e insensata, non sembrano i minuetti per cui ci ritroviamo in questi giorni ora a chiudere, ora ad aprire quella attività o quel servizio, senza ben capirne la logica di fondo?

La solitudine della Piazza dei Signori nel 2020, tempo di pandemia, foto di
Osvaldo Arpaia

Il prendercela sempre e comunque con la scuola e con la cultura per mantenere comunque vitale un sistema economico, non è forse il trionfo spudorato della Lupa, fiera che Dante ben aveva riconosciuto già nel primo canto dell’Inferno e dalla quale ci aveva ben messo in guardia, in tempi non sospetti?

Eppure se c’è un’immagine che io sento di prendere dalla Commedia per riportarla come metafora dei nostri tempi, non posso che riferirmi alla sinfonia di “abbracci mancati” che serpeggia lungo le cantiche.

Sappiamo bene quanto sia pesante tra giovani e meno giovani questa assenza di contatti, questo accontentarsi di una strusciata tra gomiti, questo dover mantenere sempre e comunque una distanza. Siamo corpi rarefatti in relazioni possibili solo dietro uno schermo.

E allora che potenza un Dante che nella spiaggia del Purgatorio cerchi per ben tre volte di abbracciare l’amico Casella (come Enea con la sua Creusa in una città in fiamme):

Io vidi una di lor trarresi avante

per abbracciarmi con sì grande affetto,

che mosse me a far lo somigliante.

Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!

tre volte dietro a lei le mani avvinsi,

e tante mi tornai con esse al petto.

O l’abbraccio impossibile tra Stazio e Virgilio, due poeti che finalmente si incontrano, pieni di stima, devozione, forse anche amore letterario, eppure non possono in alcun modo raggiungersi:

Già s’inchinava ad abbracciar li piedi

al mio dottor, ma el li disse: “Frate,

non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi”.

La commozione che colpisce persino il Paradiso, dove le anime non resistono più alla loro perfezione e non vedono l’ora di poter riavere i loro corpi pur di tornare a riabbracciare i loro cari:

Tanto mi parver sùbiti e accorti

e l’uno e l’altro coro a dicer “Amme!”,

che ben mostrar disio d’i corpi morti:

forse non pur per lor, ma per le mamme,

per li padri e per li altri che fuor cari

anzi che fosser sempiterne fiamme.

Al “disio d’i corpi morti” noi sostituiamo il peso del “disio d’i corpi vivi”!

A questi abbracci negati, impossibili, disiati, troviamo la bellezza di abbracci veri, sinceri, caldi.

Come quando Virgilio abbraccia maternamente il proprio discepolo (Lo collo poi con le braccia mi cinse;/ basciommil volto). O l’abbraccio patriotico sempre tra Virgilio e il suo compaesano Sordello, due mantovani che si riconoscono e abbracciano, come se fossero due turisti che si ritrovano in terra straniera (dicendo: “O Mantoano, io son Sordello/de la tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava). O l’abbraccio rituale, catartico, di Matelda che nel Paradiso Terrestre purifica Dante nelle acque del Lete (La bella donna ne le braccia aprissi;/abbracciommi la testa e mi sommerse).

Chissà cosa poteva essere per Dante, in esilio, l’assenza di un abbraccio. L’abbraccio della sua Gemma, di sua figlia, dei suoi amici, l’abbraccio vagheggiato per una Beatrice trascendente, tutta sognata.

Il suo esilio fatto di abbracci negati è questo nostro esilio. La risposta Dante l’aveva trovata, ma per la nostra società materialista è assolutamente improponibile.

Per questo Dante non è contemporaneo, ma è attuale.

Illustrazione di Roberto Filippini, © Froh 2020, realizzata per il progetto di Heraldo Dante’s speech

Nel fallimento politico, sociale, esistenziale che si era abbattuto su di lui e sui suoi figli, rimase sempre viva la speranza. Proprio quella “speranza” che non appartiene più alle anime del Limbo dalle quali siamo partiti (che sanza speme vivemo in disio).

Dante ha sempre avuto speranza, in Dio e nella bontà naturale in ogni uomo e in ogni donna. Nostra è la scelta. Nostro il libero arbitrio. Nostra la capacità di reagire se solo torniamo a pensarci come comunità viva e solidale, tutti quanti “cittadini/d’una vera città”.

La risposta per Dante sono sempre le stelle. Ma non è una risposta assurdamente metafisica, inattuale, da contemplativo bigotto. Le stelle sono sempre una scelta politica.

Dante era certo, settecento anni fa, che il Paradiso era possibile in questa terra e in questa vita. Così come era sicuro che solo le relazioni potevano salvarci e che questa salvezza può avvenire solo nel nostro stare assieme. Che la felicità è una felicità pubblica, collettiva, fatte da persone che stanno assieme nella loro unicità (non è forse questo il segreto della Candida Rosa?).

Dante crede in questi abbracci. Li sente vitali. Anche se per lui, come per noi ora, erano abbracci distanti.

E forse tutto il cosmo, in una visione profonda di anima mundi, risponde a questo abbraccio. E sicuramente Dio (che Dante chiamava Dio, ma noi possiamo chiamare in mille modi, Bhrama, Vuoto, Tao, Spirito, Energia…) ha braccia così grandi da abbracciare noi.

ma la bontà infinita ha sì gran braccia,

che prende ciò che si rivolge a lei.

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