Leggendo e rileggendo il tuo poema, Dante, emerge alla fine lo sforzo di dare coerenza e armonia a un universo che sembra andare a pezzi. Il tentativo di mettere pace tra tutte le cose del cielo, della terra, del mondo.

La realtà attorno a te è sempre stata fatta di compromessi, equilibri instabili, diplomazia degli affetti. Come hai potuto conciliare tutto questo?

La tua vita è sempre stata all’insegna di relazioni complesse e contraddittorie. Ti sei sposato con Gemma Donati, parente di Corso Donati, il leader di quei guelfi neri che tanto ti costarono lacrime amare. Sei stato amico di Guido Cavalcanti, poeta, intellettuale e maestro, al quale dedicasti il tuo primo libello, la Vita Nova, e che alla fine fosti costretto a mandare in esilio.

Eppure, specie nel Purgatorio, hai scritto inni bellissimi all’amicizia.

A partire da quel Casella, che incontri sulla spiaggia del secondo regno, e al quale chiedi di cantare ancora per te, così come sapeva fare in vita:

E io: «Se nuova legge non ti toglie

memoria o uso a l’amoroso canto

che mi solea quetar tutte mie doglie,

di ciò ti piaccia consolare alquanto

l’anima mia, che, con la sua persona

venendo qui, è affannata tanto!».

Amor che ne la mente mi ragiona

cominciò elli allor sì dolcemente,

che la dolcezza ancor dentro mi suona.

E il canto sembra quasi quello di una sirena, capace di ipnotizzare te, Virgilio, e tutte le anime attorno a te:

Lo mio maestro e io e quella gente

ch’eran con lui parevan sì contenti,

come a nessun toccasse altro la mente.

Noi eravam tutti fissi e attenti

a le sue note…

Oppure Belacqua, il liutaio, l’amico pigrone che arriva a strapparti un sorriso:

Li atti suoi pigri e le corte parole

mosser le labbra mie un poco a riso

Ma è nella cornice dei golosi, al canto ventitreesimo del Purgatorio, che incontrerai Forese, fratello di Corso, e anch’egli legato a tua moglie Gemma.

Tra te e Forese era nota una “tenzone”, uno scambio di sei sonetti, misto di ingiurie, oscenità, lazzi grevi e triviali, in cui reciprocamente vi accusavate di cose terribili. Ma ora tutto è diverso: voi due amici avete raggiunto una nuova maturità e ripensate a quei giorni con sereno distacco.

Per ch’io a lui: “Se tu riduci a mente

qual fosti meco, e qual io teco fui,

ancor fia grave il memorar presente.

Vi parlate senza asprezza, con intima commozione. E alla fine del vostro incontro abbiamo una frase che a mio avviso sintetizza la semplicità di questa bella amicizia:

“Quando fia ch’io ti riveggia?”, “quando ti rivedrò?” chiede Forese. Che è una domanda forse anche maldestra, perché di fatto ti sta chiedendo quando morirai. E giustamente tu rispondi, “Non so […] quant’io mi viva”

Il congedo è proprio da amici, fatto di tenerezza domestica e quotidiana.

Quando ci rivediamo? Questo diciamo agli amici, perché questo a noi interessa. Sullo sfondo abbiamo l’eternità, i grandi universali, ma questo non importa, perché quando i due amici si rincontrano, si ritrovano nella dinamica delle piccole cose.

E se forse qualche parola aguzza in vita può esserci stata, tutto trova riconciliazione quasi terapeutica, in un nuovo mondo, dove tu, Dante, ci insegni la bellezza del perdono.

Ritrovi l’amico, ritrovi l’amicizia, senza rinfacci. Senza quel corredo di miserie umane.

Quando ci rivedremo? Con la certezza che il Paradiso sarà il luogo eterno delle amicizie gioiose e luminose.

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