È fonte di discussione politica, oltre che sociale, persino il Governo ha emanato un provvedimento per introdurla nelle scuole: l’educazione sentimentale nelle classi sembra convincere il Paese, profondamente scosso dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin in seguito al quale il 25 novembre scorso, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, moltissime persone sono scese in piazza per chiedere un cambiamento culturale profondo.

Ma quanto può contribuire a una comunità coesa l’introduzione dell’educazione sentimentale a scuola? Ne abbiamo parlato con Marta Milani, docente di Pedagogia generale e sociale al Dipartimento di Scienze umane dell’Università di Verona.

Da settembre scorso, Milani segue come capofila un progetto biennale Erasmus+ che ha l’obiettivo di individuare e realizzare strumenti e strategie per contrastare la discriminazione di genere e valorizzare le differenze, sia nella vita privata che nella scuola. Il target sono insegnanti di scuola primaria afferenti a sei diverse nazionalità.

Il Centro Studi Interculturali di ateneo collaborerà per il progetto “EqualityStreet” con associazione ValIda, l’Università di Nicosia, Idea Accademy di Malta e la maltese Maria Regina Primary Qawra, le greche SynKoino Coop e l’associazione Platon M.E.P.E, l’Istituto comprensivo di Bologna, la scuola belga Ferdinand Buisson, e la ong francese Le Laba.

I risultati del sondaggio condotto il 23 novembre da Euromedia Research per la trasmissione In Onda di La7 fotografano l’opinione positiva da parte degli italiani circa l’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole.

Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin è stata approvata la direttiva del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara di un piano per diffondere l’educazione alle relazioni a scuola. Cosa ne pensa?

«Per non saper leggere e scrivere, temo che si stia tristemente sottovalutando la portata del fenomeno, che non ha nulla di emergenziale, ma è bensì sistemico. Pertanto, pensare che 12 incontri annuali, per di più coordinati solo da psicologi, quando mi sembra evidente che sia necessario un lavoro di cordata con tutti i professionisti coinvolti in ambito educativo, specie gli educatori, siano sufficienti è quantomeno sconfortante. Restituisce l’idea che l’educazione affettiva e sentimentale sia il fanalino di coda tra le priorità educative-scolastiche. Che a dichiararlo, poi, sia proprio il Ministro dell’Istruzione e del Merito non fa che aggiungere altro amaro in bocca.

La bozza includerebbe anche il coinvolgimento di influencer, cantanti e attori per ridurre le distanze con i giovani…

«La questione degli influencer ahimè non mi sorprende nemmeno tanto, dacché si inserisce nell’antro della annosa svalutazione dell’importante ruolo che rivestono, o forse sarebbe meglio dire che dovrebbero rivestire, gli educatori, che della prevenzione rappresentano gli araldi. Di questa boutade salvo solo l’idea, quella sì, condivisibile, di trovare metodi,strategie,attività che possano avvicinarsi maggiormente ai giovani, coinvolgendoli e appassionandoli.»

Come definirebbe, quindi, una buona educazione sentimentale?

«Parto da una premessa fondamentale, che rappresenta l’assunto di base da cui muoversi quando ci sia accinge ad affrontare un temacosì delicato: sono le emozioni che controllano la mente e non viceversa. Lo spiega bene Daniela Lucangeli, quando ci ricorda che il cervello mette in moto una serie di trasformazioni di ciò che si è stati e di ciò che si sarà a partire dalle informazioni che entrano e che determinano non solo le potature, ma anche nuove possibili gemmazioni. Ossia, il cervello fa germinare le memorie, che si imprimono attraverso le informazioni che si ricevono. Cosa significa, concretamente? Significa che se una interazione, un incontro coinvolge emozioni come l’ansia, la paura o un senso di disistima, esse diverranno un tipo di dato che causerà una sorta di cortocircuito. Per cui successivamente, quando si ripresenterà un’esperienza simile, verranno recuperate paro paro.

Ciò mostra quanto radicato, inevitabile e delicato sia il legame che unisce le persone e dell’importanza di investire sull’educazione affettivo-sentimentale, specie quando si tratta di “maneggiare” appunto un vissuto o un cortocircuito emozionale consistente, frutto di storie biografiche intrise di ammaccature, ferite, cicatrici che tutti abbiamo.»

Quindi da dove partire?

«Direi da un lavoro educativo certosino, costante, interdisciplinare, che punti all’introspezione, all’autoanalisi, al decentramento, prendendo contatto con quelle che Margalit Cohen-Emerique definisce “zone sensibili”, ossia gli ambiti in cui le persone fanno più fatica a comunicare, dove le emozioni sono più violente e le incomprensioni più marcate. L’attivazione delle zone sensibili ha infatti come conseguenza la creazione di un profondo stato di malessere nella persona che, se non accolto e curato, nel senso che intendeva don Milani con “I care”, “Mi importa di te”, può condurre a relazioni interpersonali totalmente disfunzionali.»

Marta Milani durante un momento di formazione in una scuola di Bordeaux,
all’interno del progetto Erasmus+ dal titolo “EqualityStreet”

Di recente le è stato promosso un progetto focalizzato sull’equità di genere nelle scuole primarie dal titolo “Equality Street”. Ritiene sia importante parlarne anche ai bambini e alle bambine più piccoli/e?

«Prima si inizia a lavorare su tali temi, prima si investe nell’educazione affettiva e sentimentale e meglio è. Ed è una prospettiva che deve perdurare per la vita intera e investire tutti gli ordini e gradi di scuola, nonché la formazione terziaria. Dal 2010 il tema della competenza è il mio specifico campo di indagine: è un costrutto cangiante, che dipende da fattori interni, contestuali e relazionali, la cui “temperatura” deve essere monitorata con contezza. Per questo non possiamo dirci mai davvero competenti. Occorre quindi che la comunità educante sia solida, fare rete con tutti gli stakeholder coinvolti a vario titolo e allinearsi in maniera compatta rispetto all’obiettivo da raggiungere. Solo così si potrà avere una società più equa, inclusiva e resiliente.»

Quali possibili strumenti pedagogici si sente di suggerire ai professionisti che lavorano con i giovani, per aiutarli a diventare adulti sempre più responsabili anche in tema di violenza di genere?

«Direi senza dubbio di rifarsi all’attivismo pedagogico e, anziché puntare sulla mera trasmissione di informazioni lavorare per potenziare altre dimensioni come quella delle abilità, il cosiddetto “saper fare”, e, soprattutto, la sfera socio-emotivo-relazionale. Ad esempio, all’interno del gruppo Studio-Ricerca-Formazione Cooperative Learning del Centro studi interculturali dell’università di Verona, da diversi anni realizziamo attività di formazione rivolte sia a bambini, ragazzi, giovani, sia a insegnanti e famiglie. Proponiamo un approccio laboratoriale, cooperativo, inclusivo e dialogico per rinforzare l’area del Sé in termini di auto-consapevolezza, a partire da quesiti fondativi: cosa proviamo? Perché sentiamo questa specifica emozione? Come possiamo riconoscere e gestire in maniera costruttiva conflitti, dinieghi, frustrazioni e differenze radicali?»

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