Fateci caso. Ogni volta che ci si avvicina alle elezioni – e a Verona manca solo un anno alle prossime amministrative… pochissimo, politicamente parlando – il tema della “sicurezza” salta fuori con prepotenza. Come una sorta di riflesso pavloviano. E questo perché quell’argomentazione è da sempre un cavallo di battaglia (e verrebbe ingenuamente da dire “uno dei pochi”) di una determinata parte politica, che da che mondo è mondo ha sempre soffiato sul fuoco delle paure più recondite della gente, alimentandole e ottenendone in cambio indubbi vantaggi elettorali.

Pensate ad esempio a come vinse le elezioni in città Flavio Tosi nel 2007. Oppure pensate, allargando lo sguardo all’Italia intera, al successo, almeno stando ai sondaggi, di Salvini e Meloni, spinti dall'”invasione” (volutamente fra virgolette) degli immigrati.

Nessuno, in linea di principio, può biasimare chi cerca, anche a livello di comunicazione, di portare l’elettorato dalla propria parte, ma questo deve essere fatto correttamente. Ed è davvero così? Perché, ad esempio, instillare il dubbio che la città di Verona non sia più così sicura come un tempo o martellare sul tasto che le istituzioni in carica sono lì a vigilare e punire fermamente i colpevoli di chissà quali nefandezze è un modo corretto di comunicare? Difficile da sostenere.

Un’immagine di Veronetta

E non sarà certo una coincidenza se in questi giorni si torna a parlare sempre più, in maniera confusa e mai veramente approfondita, del fenomeno delle “baby gang” (un termine giornalistico che non a caso proviene dallo slang americano, dove le suddette sono in genere formate da ragazzi di origine ispanica o afroamericana, quando sanno tutti che qui da noi spesso la realtà riguarda ragazzi della cosiddetta “Verona bene”) oppure si torna periodicamente a puntare il dito su chi oggettivamente non ha molta voce in capitolo, come i gestori dei non meglio identificati “negozi etnici” di Veronetta, come se fossero focolaio di chissà quali irregolarità o peggio. Come se la città e i suoi quartieri fossero il Bronx newyorkese degli anni Ottanta e Novanta, in preda a violenza, spaccio e quant’altro.

Per carità, giusto non sottovalutare alcun tipo di problema sociale e affrontarlo fin dal suo nascere così come è sacrosanto fare i controlli del caso, ci mancherebbe. E chi sbaglia deve pagare. Sempre. Ma – ed è questo il tema che stiamo affrontando – non facciamoci ingannare dalle parole. Perché parlare sempre e solo di “controlli sui negozi etnici”, così come strombazzato dalle istituzioni recentemente e riportato fedelmente senza filtro dai giornali e tv locali, implica un sottinteso (come, ad esempio, che quei controlli non siano necessari sui negozi “non etnici” perché certamente privi di irregolarità, ça va sans dire) che rischia di insinuarsi nelle menti meno pronte a capire cosa ci sia dietro la scelta di quelle parole.

Perché le parole, disse qualcuno, sono importanti.

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