I respingimenti delle ultime ore con gas lacrimogeni e le violenze perpetrate dalla guardia costiera greca contro i migranti provenienti dalla Turchia ci dimostrano come l’Europa stia, purtroppo, progressivamente perdendo l’anima e l’essenza stessa per cui è nata. Distratta prima dallo spread e dal pareggio di bilancio e ora dal Coronavirus, l’Ue lascia campo libero ai singoli stati che si sentono legittimati a utilizzare qualsiasi strumento a loro disposizione (dall’uso della violenza alla chiusura quasi totale delle procedure di richiesta di asilo) pur di reprimere il flusso migratorio reso sempre più illegale dagli stessi stati nazionali. A prendere l’iniziativa, già da tempo, è stata l’Ungheria di Orban, che contro i migranti ha riabilitato la “cortina di ferro”, poi la Croazia, dove quotidianamente si ricorre ad azioni illegali di pushback (respingimenti) con violenze di ogni genere, poi l’Italia, con la criminalizzazione dei soccorsi in mare, ed ora la Grecia, dove le autorità locali stanno utilizzando, contro civili inermi, una durezza da settant’anni mai vista in Europa, ricorrendo a ogni mezzo, dalle bombe lacrimogene ai cannoni ad acqua, dai proiettili di gomma, alle granate stordenti.

Questa situazione sta durando da troppi anni e, purtroppo, è destinata a durare fino a quando l’Unione continuerà ad anteporre gli interessi di parte al rispetto dei diritti e alla dignità degli esseri umani, rinunciando a promuovere con efficacia la pace e la prosperità nel contesto internazionale, come, invece, richiederebbe il ruolo per cui è stata istituita. In questo quadro a rimetterci sono sempre loro, uomini, donne e bambini impossibilitati, da un lato, a trovare vie legali per approdare in un “porto sicuro” mentre, dall’altro, vengono usati come merce di scambio. Per ottenere appoggi e flussi di denaro dall’Unione Europea utili alla guerra che si sta combattendo in Siria, la Turchia di Erdogan ha infatti deciso di riaprire le frontiere con Grecia e Bulgaria, facendo così scattare deliberatamente l’ennesima crisi umanitaria che ora l’Europa non riesce ad affrontare, se non con la forza. Ed è proprio qui il problema. L’Europa ha fatto accordi con la Turchia nel 2016: soldi in cambio della chiusura dei confini. Soldi in cambio di campi profughi immensi. Soldi in cambio di vite umane, ammassate a centinaia di migliaia in campi di concentramento. Dei 3,7 milioni di rifugiati presenti in Turchia non si sa più quasi nulla. Del resto la Turchia è un paese dove si perseguitano le minoranze e si arrestano giornalisti e scrittori semplicemente perché sgraditi al governo di Erdogan.

Dall’altra parte del muro è calato il sipario. Idomeni, il campo profughi greco più grande d’Europa, è stato da tempo smantellato e le condizioni disumane degli hotspot (campi profughi di primo soccorso) di Lesbo e delle altre isole non interessano più all’opinione pubblica europea perché sono ormai ritenute questioni locali. Per questo tutto sembrava essere rientrato nella normalità fino agli eventi delle ultime ore. Non esiste alcuna giustificazione per la decisione di lasciare centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini in fuga da un conflitto atroce, che in quasi nove anni ha causato centinaia di migliaia di vittime e oltre 5.5 milioni di profughi fuori dalla Siria, intrappolati in una terra di nessuno senza cibo, riparo e cure mediche. Queste atrocità, che cancellano non tanto l’Europa quanto la nostra stessa essenza di esseri umani, non possono lasciarci indifferenti. Sono numerosi gli appelli che stanno arrivando all’Unione europea da parte di altrettante organizzazioni non governative, affinché ci sia un intervento rapido e deciso delle istituzioni europee per l’apertura di corridoi umanitari con la provincia di Idlib e con le isole greche, per portare in salvo quanto prima queste persone.

Ma tutto ciò, se mai si farà, non sarà ancora sufficiente: serve, da subito, una mobilitazione dal basso perché, come intitolava ieri un quotidiano nel dare la notizia dell’ennesimo bimbo morto nell’isola di Lesbo, “L’unica epidemia che uccide è l’indifferenza”. Questa volta non giriamoci dall’altra parte pensando che gli “appestati” siano sempre gli altri.