Come anticipato nel primo articolo sul tema, nel 2011 tutto il Nordafrica viene scosso da venti di ribellione, con proteste popolari anche violente. In Libia, la situazione appare buona sotto il profilo economico, ma permane la disoccupazione e cresce la percezione di essere al cospetto di un nuovo “imperialismo”, con invasori che – come al solito – si arricchiscono alle spalle del popolo. Qui gli attori principali della ribellione tornano ad essere i clan, le tante fazioni tribali che per anni erano state “comprate”, ma mai convinte dalla causa socialista.

La rivoluzione del 17 febbraio 2011

Tutto inizia a Bengasi, che si mobilita per protestare sull’arresto di un attivista per i diritti civili, cui presto si uniscono le principali piazze del Paese, raggiunte dalle notizie che superano la censura. Importante il ruolo delle reti TV arabe, Al-Jazeera in primis, con notizie di violenze e abusi, talvolta ingigantite ad arte nel fomentare la rivolta.

Si afferma poi, in questo periodo, un altro elemento caratterizzante della crisi libica attuale: la presenza di milizie estere. Durante le cosiddette “Giornate della collera”, Gheddafi assolda mercenari dal vicino Ciad, dalla Serbia di Milosevic e dalla Legione Straniera. Soldati che non si fanno alcuno scrupolo nell’usare armi pesanti e bombardamenti contro la popolazione raccolta pacificamente nelle piazze. Tale feroce repressione spinge l’ONU ad autorizzare l’intervento internazionale, fortemente voluto da Francia e Regno Unito per superare le rispettive crisi di popolarità interne. Le posizioni dell’Italia, orientate alla necessità di mantenere la sua “relazione particolare”, vengono serenamente scavalcate e il nostro Governo, per timore che la neutralità l’avrebbe delegittimato sul piano internazionale, partecipa all’operazione con gli altri Stati NATO, oltre a Emirati Uniti e Qatar.

La morte di Gheddafi – l’inizio della fine

Il 20 ottobre Mu’ammar Gheddafi viene catturato e ucciso a Sirte. Raggiunto l’unico scopo che li aveva riuniti in coalizione, le fazioni tribali tornano a disgregarsi e a combattere le une contro le altre, tenendo di fatto in ostaggio un intero Paese proprio nella fase in cui si sarebbero dovute creare le basi per un nuovo assetto istituzionale.  Nel 2012 il Governo di transizione riconosciuto dall’ONU indice le prime elezioni dopo quasi 50 anni; anche se svolte in un clima non esattamente democratico, permettono ai liberali di salire al potere, anche se per poco. Una leadership poco autorevole e i continui attentati tribali portano al governo il partito islamico già nel 2013, anno in cui viene reintrodotta la legge islamica.

Khalifa Haftar – la seconda guerra civile

Haftar a Mosca

Nel maggio 2014, con l’Operazione Dignità, il generale Haftar, ex lealista di Gheddafi, ottiene la dissoluzione del GNC (Congresso Nazionale Generale) e nuove elezioni, che si svolgono in un clima di violenza e intimidazione, portando alla vittoria i partiti federalisti. La nuova Camera dei Rappresentanti si insedia a Tobruk, sotto la protezione del generale. Nel frattempo, gli islamisti, con l’azione Alba Libica, hanno ripreso il controllo dell’aeroporto di Tripoli e insediano un Nuovo Congresso, formato da parlamentari del parlamento precedente e da alcuni dissidenti neo-eletti. Segue una fase complessa in cui, ai due governi esistenti di fatto sul suolo libico, si aggiungono i militanti dello Stato Islamico e milizie tuareg: tanti, troppi cani a spolpare lo stesso osso, città, aeroporti e ovviamente petrolio.

Gli angoscianti video delle decapitazioni, gli attentanti terroristici (anche in Tunisia) e il ribaltamento di un barcone con 700 migranti al largo delle coste libiche sono gli eventi che fanno scattare il nuovo intervento ONU. A fine 2015, viene firmato l’accordo di pace e Fayez Al-Sarraj viene posto a capo di un Consiglio di Stato temporaneo, incaricato di formare un governo di unità nazionale. Nel 2016 si insedia a Tripoli il GNA (Governo di Accordo Nazionale) riconosciuto dalla comunità internazionale, mentre il Parlamento di Tobruk, non votando la fiducia, ribadisce politicamente la frattura all’interno del Paese, sempre la stessa da secoli e aggravata dall’enorme ricchezza contesa.

I cambiamenti nello scenario mediorientale

Nonostante i buoni risultati nella lunga guerra contro ISIS, il GNA di Al-Serraj non riesce a trovare consenso nel popolo. Spinta prima dalla Russia, già impegnata nel conflitto nel frattempo sorto in Siria, e in una seconda fase da Egitto e Turchia, la comunità internazionale inizia a riconoscere il generale Haftar come protagonista necessario di qualsiasi processo di pace. Si svolgono numerosi summit internazionali, promossi sia dal mondo occidentale che arabo, senza risultati. Haftar libera Tripoli e si rafforza nel ruolo di protettore contro il fondamentalismo islamico. Segue un periodo di incertezza politica, con elezioni ripetutamente indette e rimandate, che di fatto rende sempre più marcata la separazione tra le due macro-regioni. Nel 2019, la forza di Haftar è tale da sostenere la marcia su Tripoli, il successivo stallo militare e il lungo assedio alla città, che ci traghettano ai giorni nostri.

Numerose ingerenze internazionali, nessun risultato

Al-Serraj

I tentativi di ricomposizione del quadro interno della Libia sono bloccati dall’identità multipla della popolazione, divisa tra regionalismi e tribalismi, ma anche dall’irrigidirsi delle posizioni tra islamisti e nazionalisti, cosi come dalla presenza di centinaia di milizie alleate oggi e nemiche domani, che rispondono alla tribù locale, al signore della guerra di turno. E di pretendenti ce ne sono troppi anche all’esterno.

Mentre l’occidente resta indeciso, i paesi arabi scelgono il loro campione e lo forniscono di armi, droni e bombardieri, sostenendo una guerra di religione diversa dalle altre, tutta svolta all’interno del ramo sunnita, Fratelli musulmani contro wahabiti e altre correnti. Ora potrebbero veder svanire gli investimenti degli ultimi anni.

Altre potenze si prendono la scena, con Turchia e Russia che tentano un intervento mirato a ridimensionare l’influenza occidentale e araba in Libia, che li ponga in vantaggio nel Paese africano ma anche, e forse soprattutto, nei confronti dell’Europa. Vanno in questa direzione il dispiegamento massiccio di truppe da parte del turco Erdogan, la crescente presenza sul campo della “Società Wagner” (mercenari privati, sospettati di essere al servizio del Cremlino) e la conferenza di pace indetta da Putin a Mosca lo scorso 13 gennaio. Infine, da un accordo rimarrebbe deluso l’Egitto, che puntava a un controllo sulla Libia per sfruttarne le enormi ricchezze.

Europa alla riscossa

Conferenza di Berlino 19-20 gennaio 2020

Il rifiuto di Haftar di firmare l’accordo proposto da Putin, la settimana scorsa, ha aperto uno spiraglio alla UE, che – lasciato finalmente l’atteggiamento attendista – ha presieduto nello scorso weekend la conferenza di Berlino. Nonostante un inizio balbettante, con i due leader libici impegnati in una piccola guerra personale tra comunicati minacciosi e chiusura dei pozzi petroliferi, l’inviato ONU per la Libia, Ghassan Salamè, mostra un cauto ottimismo: «Il piano di sicurezza concordato prevede il ritiro di tutti i foreign fighter e un embargo più stringente per le armi; abbiamo fiducia che la tregua possa trasformarsi in cessate il fuoco». A differenza dei principali governi europei, tra cui quello italiano, secondo l’ONU un intervento militare esterno si potrebbe considerare soltanto se falliranno i tentativi di un accordo politico forte. La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha commentato che la conferenza di Berlino «ha posto le basi per l’implementazione del piano ONU, in un clima di massima collaborazione costruttiva tra tutti i partecipanti».

Un nuovo flusso migratorio incontrollato?

Fin dalla marcia su Tripoli, in Italia serpeggia il timore, spesso cavalcato politicamente, di una nuova invasione di migranti dalla Libia, ormai rimasti senza controlli in patria. Se tra il 2014 e il 2017 sono arrivate più di 500.000 persone partite proprio dalla Libia, è normale preoccuparsi, anche se la storia più recente sembra indicare un radicale cambiamento: dal 2017 gli sbarchi effettivi sono crollati e, con il nuovo conflitto, il caos dei combattimenti ha di fatto bloccato le partenze.

Si cominciano anche a vedere i risultati degli interventi UE che hanno prodotto una forte diminuzione del numero dei migranti in transito (e quindi in partenza) nei campi libici. Da un lato, si è negoziato con i trafficanti, finanziandone le attività a patto che trattenessero i migranti nei centri di detenzione anziché metterli in mare; una decisione sofferta, che si è purtroppo tradotta in abusi sui migranti stessi, derubati e torturati. Sono stati poi raggiunti importanti accordi con i Paesi sulla rotta migratoria, per migliorarne gli apparati di sicurezza ai confini, e con quelli d’origina per favorire i rimpatri volontari dalla Libia, con l’aiuto della Organizzazione internazionale per le migrazioni. La Libia si svuota verso sud e, pur prevedendo qualche partenza di profughi di guerra, l’esodo tanto declamato non sembra un’opzione realistica.

La “roadmap di Berlino”

La strada verso la pace in Libia è ancora lunga e saranno necessari altri summit, nonché il reale impegno da parte di tutti gli attori, principali e secondari, interessati alle sorti di questo tribolato Paese. Non abbiamo una sfera di cristallo ma l’analisi storica fin qui condotta sembra indicare che ostinarsi nel voler unire ciò che da sempre è diviso potrebbe soltanto rimandare una soluzione pacifica. Forse meglio concentrare gli sforzi su una suddivisione regionale, in ottica federalista oppure definitiva, anche se questo forse potranno deciderlo soltanto i due leader Al-Serraj e Haftar, nella speranza che riescano a superare il disprezzo reciproco e a sedersi intorno allo stesso tavolo.