L’Unione Europea sta discutendo in questi giorni sugli strumenti utili sia per affrontare la crisi sanitaria che per garantire la stabilità finanziaria quando resteranno le ferite economiche, una fase recessiva probabilmente amplificata da simile rallentamento globale. L’ex governatore della Banca Centrale Europea (BCE), Mario Draghi, ha parlato in un’intervista al “Financial Times” di un “necessary change of mindset”, cioè di una nuova mentalità, un approccio innovativo al problema.

Quasi tutti i Paesi europei hanno pronto un piano di espansione fiscale, la prima, facile reazione è fare nuovo debito, visto che la UE ha eliminato i limiti del Patto di Stabilità. Ma non basta emettere nuovi titoli di stato, ci vuole qualcuno che li voglia comprare, possibilmente a un prezzo ragionevole e tenendoli in portafoglio a medio termine, senza speculazioni. Un paese come il nostro, con PIL nullo e una fragilità speciale per debito pubblico e spread, preso da solo verrebbe valutato dagli investitori nella categoria “alto rischio”, così che sarebbero tentati di approfittarsi del debole, lasciandosi una rapida via di fuga al primo colpo di vento. Ecco perché, trasversalmente, nelle riunioni EconFin e presso il Consiglio Europeo, si chiede l’attivazione degli Eurobond in ambito Meccanismo Europeo di Stabilità (MES).

Le banche centrali hanno già fatto qualcosa. Quella statunitense, la FED, ha tagliato i tassi d’interesse di 100 punti in una sola seduta (manovra senza precedenti) e riavviato il QE (acquisto di titoli pubblici e privati) per USD 700 mld. La “nostra” BCE non è intervenuta sui tassi, già ampiamente negativi, ma ha potenziato il QE (EUR 870 mld) e offre finanziamenti al sistema bancario a tassi negativi, sta cioè “pagando” le banche perché facciano credito a persone e imprese. Lo aveva fatto per la crisi del 2011 ma  per la prima volta è stato creato un differenziale tra il tasso sui depositi e quello sui prestiti, per incentivare ancor di più il rilascio di capitali nell’economia reale e limitando gli effetti negativi sui bilanci delle banche. Ci sono poi strumenti e idee al vaglio, tra cui le obbligazioni europee e le OMT.

Eurobond – i titoli comunitari, emessi o garantiti dalla BCE, sostituiscono con un rischio appetibile quello più elevato dei Paesi presi singolarmente; sono un po’ come i Bot, ma con dietro non il nostro bilancio malmesso, bensì quello “cumulato” di tutti gli Stati UE. Per ora, come dichiarato da Paolo Gentiloni, commissario UE agli Affari Economici, sembra prevalere l’idea di farli emettere dal MES come titoli autonomi, da vendere poi alla BCE a tassi contenuti, utilizzando i proventi per finanziare spese orientate all’emergenza Covid. Maria Demertzis, dirigente del think tank europeo “Bruegel Insitute”, considera questa soluzione “un perfetto stabilizzatore per il mercato, una protezione europea contro gli attacchi speculativi”.

OMT – si parla anche di ripescare le Outright Monetary Transactions, che nel 2011 funzionarono perfino senza essere usate: bastò che Mario Draghi ne annunciasse ai mercati il possibile ricorso per calmare gli investitori impazziti. Stavolta potrebbe non essere così facile. Sono interventi mirati da parte della BCE, che acquista massivamente i titoli pubblici di quei Paesi ritenuti sotto attacco; nella struttura attuale, la loro attivazione implica una richiesta di aiuto del Paese interessato rivolta al MES, condizionata a un impegno verso riforme e aggiustamenti finanziari controllati dalle autorità europee (la temibile “troika”), sollevando in Italia gli stessi dubbi già visti per gli Eurobond.

Il problema è l’impianto del MES, il suo difficile rapporto con gli italiani, fomentato da mezze verità e bufale intere. Nato nel 2012, il MES è un fondo i cui massimi azionisti sono Italia, Germania e Francia (a pari livello nel board), che al momento dispone di oltre 400 mld erogabili agli Stati membri come linee di credito. Non piace perché vincola il debitore alle regole, ad attuare riforme, a sistemare i conti; si teme possa trasformare l’Italia in una nuova Grecia. In effetti, prevede una pre-valutazione di sostenibilità, che in caso fosse negativa, porterebbe alla ristrutturazione del debito del richiedente, che finirebbe in balìa dei mercati. Ecco perché il premier Giuseppe Conte dichiara che “non siamo intenzionati a utilizzare il MES sulla base dell’attuale quadro regolatorio, le condizioni attuali non sono accettabili” a nome del blocco di Paesi che vorrebbero un allentamento delle regole di ingaggio.

È infatti all’esame una deroga straordinaria alle norme di ingaggio del MES, considerata la situazione eccezionale, che non dipende tanto dalla pigrizia o ingordigia di una “cicala” in particolare, bensì da fattori esterni che colpiscono tutti i Paesi indistintamente. L’idea di condizionare il finanziamento al solo controllo della reale destinazione dei fondi sembra difficile, viene osteggiata dai paesi nordeuropei ma lo spazio per la trattativa è ampio. All’Italia conviene condurre la trattativa in modo costruttivo, non sulla difensiva, consapevole che il suo alto debito mette in pericolo il collocamento del suo debito sui mercati. La forza contrattuale del nostro Paese crescerebbe se fosse in grado di presentarsi avendo pronto un bilancio pluriennale credibile che preveda le riforme strutturali da tempo in cantiere, un piano di investimenti a medio lungo termine e un graduale ridimensionamento del debito.

La questione bilancio vale anche per la stessa UE, che aveva iniziato a febbraio le discussioni sul settennale 2021-27: annunciato come il bilancio della svolta ambientalista e tecnologica, diventerà anche lo strumento per contrastare la crisi e rilanciare l’Europa dopo un 2020 quasi sicuramente in recessione. I negoziati si sono bloccati sul proposto aumento dell’importo totale e sui criteri di distribuzione, specie alla luce degli 8 mld mancanti per Brexit. Per le entrate, la Commissione prevedeva nuove risorse dalla tassa sulle grandi imprese, su base imponibile comune, e dai permessi per inquinamento e rifiuti plastici. Lato uscite, erano previste riduzioni per la politica agricola (un 5% che non intacca l’Italia) e un riorientamento geografico dei fondi per la coesione, togliendo al blocco dell’Est (-25%) in favore di quelli mediterranei impegnati nella protezione dei confini esterni. In aumento anche la spesa per difesa, ricerca e infrastrutture digitali, ‘beni comuni’ europei ma anche strategicamente importanti per l’Italia.

Dopo l’emergenza coronavirus, le logiche vanno riviste: appare inutile litigare sullo zero virgola quando vanno ripensati gli obiettivi, che devono includere fondi stabili per la prevenzione delle epidemie e forme di solidarietà fine a se stessa verso i paesi più colpiti. I leader europei – e l’Italia in prima linea – dovrebbero rinunciare alla logica dei ‘numeretti’ per creare la rete di protezione ora necessaria. Poi si potrà anche litigare sul contributo di ciascuno e, lo speriamo davvero, su nuove risorse proprie della UE.

La “battaglia” è appena cominciata, in sede europea, e non pare un caso che alla perentoria richiesta di Conte di non perdere tempo e decidere di cambiare entro un paio di settimane si sia affiancata l’intervista a Draghi sulla stessa linea. L’Unione (Europea) fa la forza, sempre.