Mancano i lavoratori e le lavoratrici in bar, trattorie, ristoranti e hotel? Una ragione c’è. E non dipende dalla favola del reddito di cittadinanza che scoraggerebbe la voglia di lavorare. Una favola che è un modo poco professionale di porsi un problema e di cercare di risolverlo.

Il tema è un altro. E ben più serio. Il tema è quello dell’imprenditoria e della capacità di stare sul mercato. Nel turismo e nella ristorazione, infatti, se qualcuno pensa che si possa ripartire con il passo, la mentalità e le abitudini del periodo pre-Covid, non vuole cogliere quanto la pandemia ci dovrebbe aver insegnato.

La ripartenza dell’industria turistica, di ristoranti e bar – e di tutto l’indotto commerciale e industriale – richiede nuova cultura imprenditoriale, capacità progettuale, visione strategica, comunicazione digitale e grande forza etica.

La carenza nella qualità di una parte delle imprese del settore, abituate allo spregio dei diritti dei lavoratori e alla scarsa fedeltà fiscale; nonché l’assenza di una politica turistica ad ampio raggio sono sempre stati una palla al piede di un’industria del turismo feconda per l’Italia.

Guide turistiche di Verona in più lingue. Foto di Lukas K.

Turismo e ristorazione, manca il personale. Perché?

Dichiara la presidente di Federturismo Confindustria, Marina Lalli, sulla carenza di lavoratori stagionali alla riapertura del turismo estivo: «Con crescente frequenza, e in tutto il Paese, gli imprenditori non riescono a reperire sul mercato le professionalità e i profili normalmente in forza al settore durante i periodi di alta stagionalità». Poi aggiunge: «La ragione pare sia dovuta al fatto che molti percettori del reddito di cittadinanza, male interpretando lo spirito della misura, preferiscono continuare a percepire il sussidio al posto di rientrare nel mondo del lavoro».

«Tale anomalia, distorsiva del mercato del lavoro, richiede un correttivo immediato», prosegue la rappresentante di Federturismo, «che potrebbe essere una rimodulazione della tassazione sul costo del lavoro, per consentire ai lavoratori di percepire un netto in busta paga più elevato. E rendere quindi più attraente il lavoro rispetto al reddito di cittadinanza, con conseguente risparmio per le casse dello Stato».

La rappresentante di Federturismo Confindustria con la sua dichiarazione ci dimostra, in sostanza, tre cose:

  • il suo ragionamento e poi la sua proposta sono fondati su un “pare” (pare che gli stagionali siano sfaticati e che vogliano campare sulla pelle degli altri anziché lavorare);
  • i lavoratori del turismo (e della ristorazione) sono pagati assai poco, dato che il reddito di cittadinanza – per una famiglia di quattro persone – arriva a poco più di mille euro al mese;
  • gli imprenditori propongono di far risparmiare lo Stato tagliando il reddito di cittadinanza e di scaricare sullo Stato medesimo i contributi che dovrebbero pagare loro.

Lascio al lettore riflettere se sia fondato ragionare sui “pare”. E se sia proprio del libero mercato e dell’economia capitalistica che gli imprenditori del turismo facciano saldare ai contribuenti i loro costi; salvo poi tenersi gli incassi.

Se ragioniamo con i “pare” c’è forse una quota di giovani che non ha voglia di lavorare in un settore come il turismo e la ristorazione, un settore che richiede sacrificio, impegno, professionalità, dedizione e preparazione.

C’è però anche forse una quota di imprenditori del turismo e della ristorazione che non paga le imposte. O le paga in una misura ridotta rispetto agli incassi.

C’è invece di sicuro un turismo e una ristorazione in Italia che non paga i lavoratori secondo le regole sindacali; e secondo il principio della giusta mercede. Ci sono imprenditori turistici e della ristorazione che pretendono si lavori per 50 ore la settimana a meno di mille euro netti.

Di sicuro c’è più di qualcuno che non rispetta le regole fiscali, i diritti dei lavoratori e la qualità che l’imprenditoria turistica e della ristorazione richiede.

Siccome siamo in un libero mercato e in un’economia capitalistica, è giusto che le imprese che non rispettano le regole, i diritti e non sanno lavorare chiudano. Così almeno, chi è capace di gestire le imprese turistiche e della ristorazione – e sono la stragrande maggioranza – può lavorare, fare fatturato e profitti.

Scorcio di un’atmosfera e di locali prima della pandemia. Foto di FUTC

Su 300mila tra bar e ristoranti in Italia, lo scorso anno 22mila hanno chiuso a causa del lockdown e 20mila hanno chiuso quest’anno. Se nel 2019 bar e ristoranti avevano fatturato 90 miliardi di euro, nel 2020 ne ha persi 40; e nel 2021 siamo già a 20 miliardi in meno, per un totale di 60 miliardi di euro persi.

Roberto Calugi, direttore generale della Fipe (Federazione dei pubblici esercizi), oltre all’allarme sulle imprese del settore che hanno chiuso, traccia anche le linee della situazione drammatica della carenza di personale nella ristorazione e nei bar.

«Si fa una fatica incredibile a trovare qualcuno disposto a lavorare nei bar e nei ristoranti, sia in cucina che in sala», sostiene Calugi, «da una parte perché chi lavorava in questo comparto, viste le modeste somme ricevute durante il lockdown, arrivate oltretutto in fortissimo ritardo, è uscito dal settore e ha trovato un altro lavoro. Dall’altro, chi riceve i sussidi di disoccupazione, come l’indennità di licenziamento o il reddito di cittadinanza, spesso preferisce rimanere a casa».

Come per Federturismo Confindustria, anche qui si dimostra la realtà dello sfruttamento dei lavoratori del turismo e della ristorazione: se un giovane, spesso proveniente da altra zona o addirittura straniero, preferisce il magro reddito di cittadinanza (meno di 600 euro al mese, per un single); e se ha ricevuto assai poco durante il lockdown, vuol dire che il comparto del turismo e della ristorazione lo ha pagato e lo paga assai poco.

Eppure i prezzi di bar, trattorie, ristoranti e ospitalità in hotel non sono mai stati – specie nei centri storici e nelle località più note – a dire il vero “popolari”. Curioso il fatto che si faccia dello storytelling sulla mancanza di personale nel turismo, nei bar e nella ristorazione, anziché fare autocritica su un modo di fare imprenditoria che ha poco di imprenditoriale.

Cominciamo con il pagare i lavoratori come vanno pagati, con le relative tutele e i rispetti dei diritti; investiamo sulla formazione professionale per il settore, anziché tenerla come la Cenerentola regionale e scolastica. Vedremo, in questo modo, la situazione cambiare.

Veduta di Verona da Castel San Pietro. Foto Alessandro Carrarini

I diritti negati dei lavoratori del turismo

Per il segretario della Filcams, la categoria del Turismo della Cgil, Fabrizio Russo «la crisi ha coinvolto innanzitutto le persone che già nel Turismo della pre pandemia erano in condizioni di precarietà e fragilità, lavoratori in nero, irregolari, stagionali, in appalto, terziarizzati, a chiamata, somministrati, a tempo determinato».

«Per ricostruire e dare prospettiva al binomio Turismo e Cultura, quale asset strategico per l’economia del nostro Paese», sottolinea il rappresentante dei lavoratori del turismo, «è essenziale partire dall’inclusione e dalla tutela di queste centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori».

«Per quanto ci riguarda quindi», conclude Russo, «al di là delle priorità rispetto alla gestione dell’emergenza della salvaguardia dell’occupazione e della garanzia di condizioni di salute e sicurezza, è necessario pervenire ad un nuovo modello di Turismosostenibile ed inclusivo, che sia caratterizzato in primo luogo da un lavoro nuovostabileregolare e dignitoso».

Nella sua visita in Veneto, giorni fa, il ministro del Turismo Massimo Garavaglia ha fatto cenno alla mancanza di lavoratori in ambito turistico. Nessuno dei giornalisti – stando almeno alla parte di conferenza stampa resa nota via streaming – si è sognato di chiedergli lo stato delle cose.

Piazza Bra con l’Arena in una foto di Alberto Bigoni scattata prima della pandemia

Il turismo in Italia: manca un’inchiesta su dati, condizioni e strategia

Ci sono report di istituzioni pubbliche e private, sul turismo italiano. Ci sono dati e riflessioni di portatori di interesse.

Nessuno, fra i giornalisti, si preoccupa però di fare un’inchiesta sul turismo in Italia. E di rispondere ad alcune domande fondamentali:

  • quali sono le condizioni fiscali in cui operano le imprese del turismo e della ristorazione? Sono forse – pandemia a parte – strozzate da imposte e tasse?
  • qual è il gettito fiscale che le imprese del turismo e della ristorazione producono per lo Stato e quanto quelle imprese ricevono in cambio dallo Stato, con agevolazioni, deduzioni e detrazioni?
  • a quanto ammonta l’evasione fiscale nel comparto del turismo e della ristorazione?
  • sono rispettati i diritti dei lavoratori del turismo e della ristorazione?
  • quanto guadagna, davvero, un lavoratore del comparto turistico e della ristorazione?
  • le imprese sono gestite in modo imprenditoriale o ci si affida all’improvvisazione?
  • C’è una strategia politica per il turismo e la ristorazione Made in Italy?
Uno scorcio del lago di Garda nella foto di Gianluigi Rota

Cosa significa puntare su un “turismo sostenibile”

Si ripete spesso che all’Italia serve un turismo sostenibile, che promuova il Made in Italy, che sia frequentato da clienti stranieri altospendenti. Un turismo “sostenibile” è tale se si muove in un quadro di rispetto dell’ambiente; di misura nell’uso delle risorse; di valorizzazione e tutela dei tesori artistici, storici e culturali d’Italia. Fin qui, tutti sono d’accordo.

La sostenibilità, tuttavia, passa anche dal rispetto della dignità delle persone. Passa dall’osservanza dei diritti sindacali e della giusta mercede per chi vi lavora. Un turismo e una ristorazione – bar inclusi – rispettosi della sostenibilità e del Made in Italy passano anche dalla fedeltà fiscale.

Non v’è dubbio che chi risparmia sui lavoratori, sui diritti dei dipendenti e froda il fisco non ha certo a cuore la qualità delle materie prime, il pagamento dei fornitori, il valore del Made in Italy, la visione imprenditoriale di lungo periodo.

L’insofferenza per le regole richieste al comparto turistico e della ristorazione – lo abbiamo visto nell’estate del 2020 prima della seconda ondata di contagi – la dice lunga su quanto lavoro vi sia da fare nell’industria turistica.

Chi ha saputo fare l’imprenditore, chi ha davvero rispettato le regole anti-Covid, chi ha pagato i propri dipendenti e ha rispettato le norme fiscali ha dovuto sopportare le chiusure a causa di chi, pur in minoranza, non ha saputo fare l’imprenditore.

Chi non è capace – a livello strategico, operativo ed etico – di fare l’imprenditore deve chiudere. Se chiudono le bad company, le imprese di qualità possono lavorare meglio e guadagnare di più.

Turisti a Venezia nella foto di Aleks-Marinkovic scattata prima della pandemia

Il rilancio del turismo: imprese sane, diritti e fisco adeguato

Come rilanciare il turismo – e tutto il comparto economico che beneficia dell’industria turistica? Le soluzioni vi sono:

  • il sostegno finanziario robusto alle imprese che sono in regola con gli obblighi fiscali e il rispetto dei diritti dei lavoratori, sulla base di progetti imprenditoriali di qualità;
  • una politica del lavoro e della formazione che prepari imprenditori, dipendenti, collaboratori, tecnici e professionisti a un turismo di alto profilo;
  • una scelta netta per il turismo sostenibile sul piano etico, sociale e ambientale, non basato solo su vuote parole;
  • una digitalizzazione delle imprese del turismo e della ristorazione, come dei pubblici esercizi, che coniughi il digitale con la valorizzazione degli imprenditori e dei lavoratori dotati di professionalità.

Pensare che tutto torni come prima – arrivi in massa, sfruttamento dei lavoratori, imprenditoria improvvisata, scarsa professionalità, opacità fiscale, servizi al limite inferiore – vuol dire non aver capito la lezione del Covid-19.

Quel che è peggio, vuol dire non aver capito che è adesso l’occasione per cambiare passo, dopo aver dimostrato scarsa lungimiranza nell’estate del 2020.

L’Italia ha bisogno del turismo e il turismo ha bisogno dell’Italia.

Servono imprenditori, professionisti e lavoratori all’altezza della sfida per una ripartenza che sia anche innovazione. Non certo ritorno al passato.

Gli imprenditori incapaci – del turismo e della ristorazione – devono cambiare mestiere, o cambiare nazione.

Occorre dare spazio agli imprenditori – e sono tanti – che hanno idee, forza, etica e impegno per un turismo e una ristorazione che creino ricchezza senza depredare nessuno.

(Foto di copertina di Devon Daniel. Le foto sono gentilmente fornite da Unsplash)

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