In occasione del Giorno della Memoria, il 27 gennaio, andrà in scena questa sera al Teatro Peroni di San Martino Buon Albergo lo spettacolo “124 secondi”, scritto e diretto da Angelo Facchetti. Una produzione Teatro Telaio e CTB – Centro Teatrale Bresciano con Alessandro Mor e Alessandro Quattro. Lo spettacolo, che in tutto il centro-nord Italia ha già fatto 65 repliche, rientra nell’ambito della rassegna “Evoluzioni”, con la direzione artistica di Barbara Baldo di Ippogrifo Produzioni.

Si tratta del racconto di un episodio, realmente accaduto, il 22 giugno 1938, quando al Madison Square Garden di New York si svolge un incontro di boxe che all’epoca divenne anche emblema di uno scontro tra due mondi. Sul ring, infatti, si affrontarono Joe Louis, primo detentore afroamericano del titolo di campione del mondo dei pesi massimi, e Max Schmeling, simbolo di un nazismo che all’epoca stava già cominciando a concepire e preparando l’infamia della deportazione e dello sterminio degli ebrei. Un normale match di pugilato, quindi, che venne dipinto, dai media dell’epoca, come uno scontro di civiltà, con l’emancipazione razziale da una parte e la pretesa superiorità della razza ariana, dall’altra.

Si tratta di un episodio reale, sconosciuto ai più, capace di accompagnare per mano lo spettatore nelle pieghe di un momento storico che avrebbe cambiato il mondo per sempre. La Seconda Guerra Mondiale. Abbiamo intervistato Angelo Facchetti, autore e regista della piece teatrale (durata circa 60 minuti; età minima consigliata 13 anni; biglietti ancora disponibili).

Facchetti, innanzitutto ci racconti a grandi linee cosa si deve aspettare il pubblico?

«Abbiamo scelto di raccontare questo evento sportivo perché, esattamente come avviene oggi, già al tempo questo tipo di eventi erano al centro della propaganda. Da una parte quella nazista, ma dall’altra quella americana. Entrambe hanno volutamente strumentalizzato un incontro sportivo facendolo diventare qualcosa di diverso. Ciò avvenne attraverso i media dell’epoca: radio, carta stampata, cinegiornali… Siamo partiti da un libro intitolato “Oltre la gloria” del giornalista sportivo americano David Margolick, ma abbiamo fatto ricerca per circa sei mesi, vagliando migliaia di documenti e testimonianze dell’epoca, per descrivere al meglio la situazione che si era creata attorno a questo evento.»

Si tratta quindi di un pretesto per parlare anche della nostra situazione attuale?

Angelo Facchetti

«Già all’epoca mistificavano la realtà, esattamente come avviene oggi. Una persona che non poteva assistere all’evento in prima persona poteva avere un’idea completamente diversa di quello che era realmente avvenuto in base al tipo di racconto che gli veniva fatto.

Tanto per dire i due pugili, la loro carriera, le loro origini… nulla di tutto questo in realtà viene veramente considerato dai mass media dell’epoca, che decidono di usare i due atleti come mero simbolo di uno scontro culturale e politico. Quando parliamo di fake news o di revisionismo storico dobbiamo sapere che la verità non è mai una. Bisogna sempre documentarsi, avere accesso a più fonti storiche per cercare di capire il meglio possibile quale sia la vera verità dei fatti. Ad esempio negli Stati Uniti c’era tanta gente razzista, che ovviamente tifava per l’avversario di Joe Louis, Max Schmeling, pur di non ammettere che il campione che rappresentava l’America fosse un nero.»

Ci parli, allora, di questi due pugili…

«Il loro primo incontro risale a due anni prima, nel 1936, quando un po’ inaspettatamente vinse il tedesco. Joe Louis diventò, però, campione dei pesi massimi l’anno dopo. A quel punto era necessario fargli avere la rivincita e l’occasione viene creata nel 1938, pochi mesi prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Si scopre, così, che fra i due pugili non c’era questa grande rivalità, come invece raccontavano i media del tempo, e Schmeling non era affatto un nazista, così come non era certo un paladino degli Stati Uniti Louis, che era di origine afroamericana in una società che aveva ancora a che fare con notevoli tensioni razziste.

Dopo quell’incontro, invece, Louis verrà utilizzato dal Governo e le istituzioni a fini propagandistici, così come al contrario il pugile tedesco, dopo il 1938, venne relegato ai margini, messo in secondo piano. Addirittura durante la Seconda Guerra Mondiale venne inviato in Grecia in una missione “suicida”, dalla quale miracolosamente scampò, ma la sua carriera da pugile era ormai finita, anche dopo il suo rientro in patria.»

Cosa successe allora?

«Anni dopo i due diventeranno amici. C’era ovviamente una rivalità sportiva, ma non certo a livello umano. Anzi Louis aiuterà il suo avversario dandogli una concessione per pubblicizzare la Coca Cola e permettendo a Schmeling di ripartire. Il tedesco diventerà un imprenditore di successo, farà molta beneficenza e sarà ricordato per motivi lontani dal ring.»

Perché ha scelto di raccontare questa vicenda?

«La cosa che mi affascinava di questo evento era proprio quello che ci stava attorno a livello di media. Al tempo la boxe era lo sport in assoluto più popolare, che tutti seguivano. La cosa più surreale, fra l’altro, è che i manager che gravitavano intorno a questa disciplina erano praticamente tutti di origine ebrea, anche quello di Schmeling. I nazisti, però, su questo passavano oltre pur di ottenere ciò che volevano ottenere.»

Il vostro spettacolo, dunque, può essere considerato una riflessione sul concetto di verità…

«Certamente. I due personaggi in scena discutono dall’inizio alla fine sulla mistificazione che si ebbe a livello di mass media e del racconto che se ne fece, attraverso quelli, della boxe, di un’epopea, di un’epoca… All’inizio i due personaggi si sfidano a livello di citazioni, salvo poi fermarsi per riflettere se ci sono delle regole che possano aiutare il pubblico a capire se quello che raccontano è vero o falso.

È metateatro, un continuo dentro e un fuori che crea dinamismo e può confondere, ma alla fine aiuta a chiarire quella che è la riflessione finale. C’è una parte, all’interno della piéce, in cui si parla di tutti i film che nella storia del cinema parlano di boxe e lo si fa con un’aurea quasi filosofica. Si vuole dare l’idea che alla fine si tratta di uno sconto epico, una tragedia nel vero senso del termine, in cui uno dei due antagonisti deve vincere e l’altro, shakespearianamente, deve inevitabilmente morire, altrimenti non si può compiere la catarsi.»

Qual è la morale della favola?

«Ho chiesto a una mia collega, Silvia Mazzini, una consulenza filosofica. Abbiamo chiesto a lei un aiuto ed è emersa una frase che ci è piaciuta molto, di Emmanuel Lèvinas che afferma: La verità è nel vero volto dell’altro. Ecco, riconoscere l’altro, il diverso, ci permettere di conoscere noi stessi. È come se fosse, quella, una sorta di Epifania, perché nel vedere l’altro riconosco me, cogliendo al contempo il sublime, il divino, e così anche la mia essenza. Suggelliamo il tutto con questo sguardo fra i due protagonisti. Loro due in quel momento si vedono, si incontrano sul ring ma vanno anche oltre. Colgono la dignità di essere umani, l’uno nell’altro.»

Perché consiglia di venire a vedere questo spettacolo al pubblico veronese, fra l’altro proprio oggi, nel Giorno della Memoria?

«Inizialmente non l’avevamo pensato per questa Giornata, anche perché come si è visto non è una storia prettamente legata ai campi di concentramento e alla Shoah, ma comunque è uno spettacolo di cui si possono fare diversi livelli di lettura. C’è la vicenda sportiva, quella puramente storica, c’è la riflessione sulla verità e sul ruolo dei media. Eppoi c’è la splendida scenografia di Giuseppe Luzzi, le musiche originali dell’epoca, contestualizzate per la Germania e gli Stati Uniti, e molto altro.

Ecco, penso che al di là di tutto questa esperienza rappresenti fondamentalmente un’occasione per riflettere. Noi lanciamo con questo spettacolo, inizialmente concepito come destinato ai ragazzi, per fare una provocazione: al tempo c’era sì un regime, quello nazista, ma dall’altra parte c’era una repubblica, quella americana, considerata la più importante e fulgida del mondo ma ancora profondamente minata da problemi sociali di integrazione, razzismo, ma anche cultura capitalista (venduta quini al profitto), piegata al successo economico. I due pugili in scena si sfidano anche su questo terreno. Bisogna capire che non esiste solo il bianco e il nero, ma ci sono svariate sfumature, di ogni cosa. Pensiamo a quello che accade ancora oggi negli Stati Uniti, con tanti problemi che non sono ancora stati risolti, e con un ex Presidente pericoloso come Trump (si pensi solo all’assalto al Campidoglio) nonostante tutto ancora eleggibile e che quindi oggi ha ancora la possibilità di candidarsi.»

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