I termini “femminicidio” o “femicidio” stanno ad indicare un insieme più o meno ampio di comportamenti discriminatori o violenti, posti in essere nei confronti delle donne “in quanto donne”, ovvero come “forma di esercizio di potere maschile sulla psiche e/o sul corpo di donne eterosessuali e lesbiche, potere volto ad annientare la vita, la libertà, la personalità, qualora non si adeguino al modello sociale proposto”.

Per analizzare esaustivamente il fenomeno va, preliminarmente osservato, come sia utile una sintetica analisi dell’origine dei termini, chiarendo i distinti significati di “femminicidio” e “femicidio”, parole che i più considerano come vocaboli equivalenti (se non meri errori di carattere ortografico), ma che sono in realtà densi di significati, simili ma diversi nei loro caratteri peculiari. Il maggiore motivo di incomprensione deriva dalla traduzione della locuzione “femicide”. Nei paesi angolofoni, infatti, il termine “Femicide” viene utilizzato in maniera interscambiabile con il termine “Femminicidio”.

Nel corso degli anni questi vocaboli hanno assunto significati diversi e per comprenderli nella loro compiutezza serve analizzare le opere delle studiose che, per prime, li hanno affrontati: Diana Russell e Marcela Lagarde.

Va osservato, come le nuove categorie concettuali elaborate del femicide e del femminicidio, abbiano consentito di approfondire la concreta dimensione del fenomeno dei crimini contro le donne attraverso un uso sessuato degli strumenti scientifici, e dunque anche giuridici, di interpretazione del dato di realtà.

Deve notarsi come, da un punto di vista puramente terminologico, siano state avanzate critiche all’utilizzo del termine “Femminicidio” che viene considerato ghettizzante e riduttivo. In particolare, tale approccio si concentra sull’etimologia del termine che ci porta ad essere individuate come esseri “femminili” e non come “donne”. L’assunto dal quale tale argomentazione prende le mosse parte dalla considerazione che l’utilizzo del termine “femminicidio” porrebbe l’accento sulla “vittima” e non sugli “assassini”. In tale prospettiva, si preferirebbe, invece, porre l’accento sulla violenza subita dal femminile: ma in tal modo si permetterebbe una minore attenzione per agli autori del reato: gli appartenenti al sesso maschile.

La violenza è ovunque. La violenza è tutt’intorno a noi. Nessuno può sentirsi al riparo dai suoi effetti. Possiamo sperimentarla nell’intimità delle nostre case, possiamo aspettarcela per la strada…Non sorprende che la violenza ci preoccupi così tanto, poiché siamo abbastanza unici per quanto riguarda la capacità di uccidere a sangue freddo, di torturarci a vicenda e di minacciare la nostra stessa sopravvivenza.

F. De Zuleta “Dal dolore alla violenza” ed. Cortina 1993

L’impostazione che fa leva sul fenomeno del cosiddetto “femminicidio” determinerebbe quindi una rappresentazione delle donne quali protagoniste di un atteggiamento di tipo “vittimistico”. Secondo tale tipo di impostazione dottrinale, il cosiddetto “vittimismo delle donne” non è però mai proficuo; anche quando le stesse siano davvero vittime è meglio parlare di “persone che si trovano in un momento transitorio di difficoltà”, ma pienamente in grado di risollevarsi e dotate di una propria intrinseca forza che non ha necessità di essere dimostrata o spiegata. La critica terminologica all’utilizzo del termine “femminicidio” sostiene, in breve, la sua messa in discussione e la necessità di concentrarsi sull’autore delle violenze, definendo e nominando esplicitamente la cultura maschile che le determina.

I “deboli”, per non dire le “vittime”, anche quando percuotono, uccidono, coloro che sono sotto scacco sono gli uomini e non le donne. È vero, si prosegue in questo argomentare, che la violenza sulle donne riguarda anche noi, la nostra cultura, la nostra normalità, ma è altrettanto vero che innanzi a questo allarmante fenomeno le istituzioni appaiono incapaci di dare adeguate risposte preventive.

Osservo, a questo riguardo, come tale disquisizione, a mio modo di vedere meramente nominalistica, assuma i contorni della contrapposizione sterile. Concordo con quella parte delle esponenti del movimento femminista che sottolineano la gravità della qualificazione delle donne come “vittime”, ma non penso che sia questo il punto rilevante del dibattito.

Ciò che rileva è che l’intero fenomeno, innanzi descritto, e definito da Lagarde come “Femicidio” e da Russell come “Femminicidio” sia, per poter essere correttamente affrontato, considerato attraverso l’impiego di strumenti scientifici utilizzati in maniera “sessuata”. Anche il “nostro” diritto e la scienza giuridica debbono, quindi, essere declinati secondo tale accezione. L’esatta definizione consente, infatti, di sviluppare e comprendere, in maniera quanto più possibile esaustiva, i rapporti e le dinamiche sociali sottese al femminicidio.

La risposta a tali quesiti richiede il riconoscimento di una stretta relazione tra potere e regolazione sociale attraverso le norme culturali e quelle giuridiche. La nozione giuridicamente rilevante di “potere” appare regolata da una pluralità di connotazioni negative, quando attiene al genere sessuale. Solitamente, in tema di genere, le accezioni marcatamente negative riflettono l’utilizzo di vocaboli quali: “limitazione, proibizione, regolazione, controllo e protezione” delle donne.

Per affrontare compiutamente la questione è necessario muovere dalla premessa della distinzione del significato del termine, di matrice anglosassone, sex: sessualità intesa non come comportamento sessuale di chi si rapporta ad un altro, ma come condizione individuale sessuata: come si nasce, come si è.

Quando si parla di gender , invece, si fa riferimento ad un percorso discorsivo, ad una condizione metabiologica dell’essere uomo o dell’essere donna: la mascolinità, la femminilità, il come si diviene. Mi sia consentito l’accostamento, a come si ri-diventa continuamente donne, come direbbe nel suo “Secondo Sesso”  Simon De Beauvoir.

Volendo fare chiarezza, il termine “identità di genere: è una espressione che può essere utilizzata in sensi diversi: a livello grammaticale, indica la distinzione tra maschile/ femminile-” (ma in alcune lingue , anche il neutro); a livello concettuale è una categoria che raggruppa cose/persone con caratteristiche rilevanti simili e irrilevanti dissimili ( si può usare anche per indicare l’umano, senza distinguere uomini e donne); nel dibattito di oggi, come traduzione dal termine gender, si riferisce, in modo specifico, ad una dimensione che si contrappone a sex.”

Per completezza va rammentato, inoltre, come in tale contesto meriti di essere menzionato anche il fenomeno definito in letteratura come “gynocide” o con il sinonimo di “gendercide”, termini utilizzati per descrivere gli ambiti in cui la violenza è perpetrata costantemente, legittimata e giustificata da una struttura di potere e culturale funzionale alla eliminazione delle donne come genere.

Tale fenomeno, che passa da stupri sistematici a soggezioni economiche, esiste da tempi antichi, potendosi riportare ai contesti del ratto delle sabine, della caccia alle streghe, attraversando la tratta, le nuove schiavitù, la commercializzazione sino ad arrivare alle donne utilizzate come bottini/strumenti di guerra nei conflitti internazionali. E ancora alle mutilazioni genitali femminili, pratica utilizzata nel continente africano e che costituisce una violenza rituale accettata. Questo fenomeno ben può essere considerato veicolo per lo sterminio di genere. Sono tutte pratiche che non sono stati in quei paesi condannate.

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