Può un singolo avvenimento modificare totalmente la narrazione attorno ad uno sportivo professionista? Esaltare la figura di un uomo e di un allenatore fino a farlo divenire una sorta di oggetto di culto intergenerazionale?

La risposta è, ovviamente, sì. E tutto quello che abbiamo sentito, o che stiamo leggendo in queste ore, su Claudio Ranieri è qui a confermarcelo. Il tecnico romano si è appena ritirato dal calcio professionistico, o almeno da quello di club. Gli elogi e le lodi si sprecano, la salvezza ottenuta col Cagliari l’ultimo grande risultato. Ma in tutti questi anni, forse, il suo vero miracolo è stato il saper resistere all’idea che la maggior parte del calcio aveva di lui.

A day in the life. Per Ranieri quel giorno è il 2 maggio 2016. Tottenham e Chelsea pareggiano 2 a 2, consegnando matematicamente la Premier League nelle mani del suo Leicester. Una squadra salvatasi per il rotto della cuffia l’anno precedente, costruita con un mix di talenti da sgrezzare e onesti mestieranti del pallone e portata incredibilmente al titolo dopo una cavalcata incredibile. Una di quelle stagioni irripetibili che tanto piacciono ai produttori cinematografici di Hollywood. Se vogliamo celebrare la carriera di Claudio Ranieri, però, sarebbe ingiusto dimenticare tutto ciò che c’è stato prima, dopo e attorno a quella serata di inizio maggio.

Romano e romanista, padre macellaio testaccino e gioventù spesa all’oratorio di San Saba. La storia del Ranieri calciatore potrebbe benissimo stare in un film di Rossellini. L’esordio con la Roma e poi una carriera intera spesa col giallorosso addosso, ma quello del Catanzaro. Le ultime avventure a Catania e Palermo, prima di appendere gli scarpini al chiodo e sedersi sulla sua prima panchina.

È quella del Vigor Lamezia, che conduce subito alla vittoria dell’allora Interregionale nella primavera del 1987. Un anno dopo prende le redini del Cagliari, guidando i rossoblù a due promozioni consecutive dalla C1 alla Serie A. Il terzo anno arriva anche una bella salvezza con una squadra a trazione uruguagia imperniata sulla fase difensiva di Herrera e che là davanti lascia libero sfogo al talento di Fonseca e Francescoli.

Ranieri sulla panchina del Napoli

L’impresa in terra sarda porta Ranieri sui radar del primo Napoli post Maradona. Durerà un anno e qualche mese; qualificazione in Uefa e poi esonero a novembre. Nell’estate del ‘93 si rivolge a lui un’altra nobile decaduta, quella Fiorentina retrocessa clamorosamente dopo 54 anni nella massima serie. Anche all’ombra della Fiesole sarà promozione immediata e poi tre stagioni condite dalla conquista di Coppa Italia e Supercoppa ai danni del Milan.

«Un formidabile maestro di calcio normale» dirà di lui Mario Sconcerti. E in quel “normale” c’è tutto l’elogio un po’ peloso a chi è bravo e buono, ma deve sapere qual è il suo posto. Come nelle grandi imprese himalayane del secondo dopoguerra. Ci sono gli scalatori bravi, più o meno tutti quelli che partono per la spedizione, e poi ci sono quelli che vengono scelti per attaccare la vetta.

Claudio Ranieri a livello di rapporti umani non è mai stato messo in discussione da nessuno. Su tutto il resto, negli anni, c’è da sbizzarrirsi. Troppo difensivo, poco adatto a progetti a lungo termine, scelte tattiche controverse. Fino al suo grande classico: chiamato per ricostruire ma, poi, poco adatto quando c’è da vincere e da imporsi. Un refrain iniziato sul finire degli anni ‘90, quando lascia la Serie A per tentare fortuna all’estero.

È sua l’impalcatura del Valencia pre-Cuper, che raggiungerà due finali di Champions consecutive. Così come è suo il lavoro fatto sul Chelsea di inizio millennio e che, con l’arrivo dei milioni di Abramovich, lo sostituirà con Josè Mourinho. Lui sì già Special One affermato. In terra inglese Ranieri si guadagna anche il suo soprannome più in voga: Tinkerman. Colui che ripara ogni cosa con pochi mezzi e, allo stesso tempo, l’eterno indeciso nello stabilire la formazione titolare.

Un uomo onesto, un uomo probo, direbbe De André. Disposto ad accettare ogni situazione per amore del pallone. Sarà per quello che nei dieci anni successivi gli unici acuti sono una salvezza insperata col Parma (2007) e il ritorno in Ligue 1 del Monaco (2013) con, nel mezzo, le panchine di una Juventus neopromossa e di un Inter in disfacimento, uno scudetto francamente gettato alle ortiche con la Roma e l’incomprensibile esperienza come CT della Grecia.

Buon allenatore, sì, ma fino ad un certo punto. Nemmeno Ranieri sembra voler far nulla per staccarsi di dosso l’etichetta di tecnico che non ha saputo fare quell’ultimo step. Pacato, sorridente, mai una polemica o un’uscita fuori posto, nemmeno quando giornalisti o colleghi lo punzecchiano apertamente. Eppure lo sanno tutti che per vincere bisogna essere un po’ più testa di…

Tutto questo fino alle Foxes, fino al 2 maggio 2016. Da quel giorno in poi per gli inglesi diventa King Claudio e tutti i soprannomi precedenti è come se non fossero mai esistiti. Tutte le critiche, i sorrisini e le malignità evaporano. Gli errori e i limiti che, prima, lo avevano condannato, ora sono le pietre su cui si edifica la leggenda. L’aria è cambiata. Lo intuisce persino Mourinho, un fuoriclasse nel fiutare gli umori popolari, che dal «è troppo vecchio per cambiare la mentalità che non ha bisogno di vincere», passa a celebrarlo come colui che «ha scritto la più bella pagina nella storia della Premier League».

L’immagine del tecnico che solleva la coppa, incoronato da Kasper Schmeichel, è uno di quegli scatti destinati a rimanere nella memoria. Istanti eternizzati nel culto pagano del pallone. Nemmeno l’esonero della stagione successiva e i non mirabolanti passaggi a Nantes, Fulham e Watford sono valsi a riportare in voga certi commenti. Probabilmente nel prossimo futuro ci sarà chi farà dei paragoni con la strabiliante Atalanta che ha appena conquistato l’Europa League. Sul piano tecnico il dibattito può starci. Poi ascoltiamo le dichiarazioni post-partita di Gasperini e capiamo dove sta la differenza. Nell’amore che ha l’amore come solo argomento, restando su Faber.

Ranieri saluta il pubblico di Cagliari (foto: Cagliari Calcio)

Per chiudere il cerchio Ranieri ha scelto di tornare dove è stato bene, in terra di Sardegna, rispolverando un suo grande classico. Promozione e successiva salvezza. Non un’impresa da leggenda, ma un ulteriore traguardo raggiunto con calma, lavoro e dedizione, portandosi dietro l’intera squadra.

A day in the life è l’ultima traccia di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, per molti una delle vette artistiche dei Beatles. I read the news today oh boy, about a lucky man who made the grade, and though the news was rather sad, Well I just had to laugh. Ho letto la notizia sui giornali di oggi, di un uomo fortunato che è arrivato a destinazione, e sebbene la notizia fosse piuttosto triste, mi è proprio venuto da ridere. Per il ragazzo di San Saba, ora con i capelli grigi, quel giorno è anche oggi.

Claudio Ranieri stavolta ha deciso lui quando scendere di sella. Lo ha fatto col sorriso stampato sul volto e la serenità di chi per quasi quarant’anni, in fondo, ha solo cercato di far bene il suo mestiere. Senza farsi snaturare da un mondo sempre più urlato ed eccessivo. Fiero di ciò che ha raccolto. Pochi titoli, magari, ma con tutto l’affetto di chi ha conosciuto l’uomo. E non aveva bisogno di nessuna Premier per dirgli, semplicemente, grazie.

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