«Eravamo nel centro di sicurezza nazionale dell’ex Repubblica afghana in detenzione dei talebani. C’era un ragazzino talebano di circa 17 anni, alto più o meno come me, il kalashnikov appoggiato sul muro, mi si è avvicinato pian piano con il cellulare in mano e si è seduto accanto a me. Me lo ha mostrato e ha detto qualcosa in lingua parshtu. Rideva e diceva qualcosa che mi è stato tradotto come “Guarda guarda! É così bello!”

Sullo schermo alcuni talebani, vestiti in un certo modo, che abbracciavano un imam e si allontanavano. Due secondi dopo, l’obiettivo inquadra in lontananza alcuni soldati americani che saltano in aria. Il ragazzino mi stava mostrando come facevano esplodere i militari. E rideva.»

Con questa testimonianza del cronista indipendente di esteri Claudio Locatelli, si è aperto l’appuntamento serale al Forte Sofia, il terzo di sabato 2 ottobre dell’associazione scaligera One Bridge To Idomeni, giornata dedicata al tema “Afghanistan – voci e volti dai confini”.

Bergamasco, laureato a Padova e già attivo in zone calde come Siria e Bosnia, il giornalista esperto di aree di conflitto e di guerra è tra i pochissimi ad essere rimasto in Afghanistan dopo il 31 agosto scorso, data dell’abbandono dei territori da parte delle truppe americane. La data di sabato è stato il primo di una serie di incontri in cui raccontare la complessa situazione afghana. 

Le dirette da Kabul dopo il ritiro degli Usa

Unico a lanciare delle dirette live da Kabul dopo la partenza degli ultimi soldati americani, seguito da 3,5 milioni di utenti unici, Locatelli ha spiegato una situazione caotica: «Kabul oggi è una realtà in divenire, che ancora non ha un futuro scritto. Anche poche ore fa (di sabato, ndr) ci sono stati altri attentati e scontri tra alcuni miliziani a nord della città. La sola cosa certa è che il volto dei talebani che abbiamo visto finora sarà sicuramente molto più duro, molto più ostico quando i riflettori del mondo nei prossimi mesi caleranno.»

Il reporter ha raccontato episodi legati al suo arresto, quando si è trovato a dover scegliere se consegnarsi ai talebani (che gli avevano concesso un accredito stampa) o rischiare di essere rapito da membri di altre organizzazioni. «Sono prigioniero?», ha chiesto Locatelli dopo essere stato portato nel centro di detenzione a Kabul. «No, no» è stata la risposta dei talebani. «Allora me ne posso andare?», ha rilanciato, consapevole della risposta che sarebbe arrivata subito dopo: «No.» 

«Ad esempio – ha proseguito nel racconto, mostrando una foto in esclusiva per la serata – ai giornalisti è stato imposto di scrivere e firmare una dichiarazione con la quale si impegnano a non prendere parte a nessuna manifestazione o forma di protesta. E si assumono, in caso contrario, la responsabilità di ogni conseguenza.»

Un apparente stato di calma

«La città di Kabul ha tantissime sfumature, un apparente stato di calma disciolto in una tensione gigantesca, tantissimi elementi nascosti che provocano tensione, frustrazione e paura – ha continuato ancora Locatelli, che ha sfruttato per questo le tecniche di mobile journalism raccontando la gente attraverso i social -. Ricordo che i talebani al governo non hanno vietato lo sport alle donne e tutta una serie di cose ma di fatto tutti le hanno messe in pratica, per un timore talmente grande che è peggio del divieto stesso. Sicuramente quando il governo inizierà a legiferare, realisticamente molte di quelle paurose consuetudini diventeranno legge» ha spiegato con amarezza l’ex combattente.

Apparente ricerca del dialogo con gli altri Paesi, Cina e Russia in primis, apparente disponibilità verso i giornalisti e verso il rispetto dei diritti civili. Eppure, confida il freelance, a telecamere spente sui volti degli intervistati compare la paura, e molti chiedono aiuto per lasciare Kabul. La situazione afghana è molto intricata e fare analisi avendo pochi dati è davvero molto difficile. Per questo, il giornalista auspica una maggior collaborazione nell’ambito del giornalismo italiano. «L’informazione è anche condivisione – ha concluso il giornalista – e per poter essere efficace, deve essere senza filtri, collaborativa e senza arroganza».

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