È lecito chiedersi quanto costi la democrazia. Ma la domanda corretta è forse un’altra: quanto costerebbe rinunciare alla democrazia? Negli anni ’20 del secolo scorso l’Italia scivolò nella tragica illusione populista di poterne farne a meno, ma sappiamo come non sia finita bene. Sulle macerie di quel disastro, grazie al sacrificio di tanti italiani, è fiorita la democrazia e una Costituzione che dobbiamo tenerci ben stretta.

La democrazia è per sua natura tanto preziosa quanto fragile e per questo va protetta, coltivata, e nutrita di partecipazione, cultura e dialogo. Qualcuno propone la democrazia diretta, senza organi intermedi, ma francamente rappresenta solo una scorciatoia che sconfina nella palude dell’antipolitica. Già spesso è complicata la gestione di un condominio, con le sue faticose e litigiose assemblee, figuriamoci cosa significherebbe partecipare alla gestione di uno Stato.

La democrazia rappresentativa si avvale di organismi intermedi, i partiti politici, portatori di ideologie e ideali, e spazi di discussione e di partecipazione. A livello locale ed in Parlamento, essi interpretano e trasformano in leggi, le aspirazioni fondamentali dei cittadini.

Tutto questo ha un costo che storicamente si finanziava con l’iscrizione al partito, il volontariato e le sottoscrizioni. Ma se i partiti svolgono anche un essenziale ruolo pubblico di sostegno alla democrazia, come recita l’art. 49 della nostra Costituzione, allora il finanziamento dovrebbe essere anche pubblico.

Il finanziamento pubblico da Piccoli a Letta

Il finanziamento alla politica in Italia è iniziato nel 1974 con la cosiddetta legge Piccoli, per porre rimedio ad alcuni scandali degli anni precedenti e volta a sovvenzionare l’attività politica dei gruppi parlamentari e quella elettorale. Sulla scia di Tangentopoli, nel 1993, a seguito del referendum promosso dai Radicali, il finanziamento ai gruppi parlamentari venne eliminato, mentre rimasero i rimborsi elettorali.

Negli anni successivi i rimborsi elettorali vennero più volte modificati ed aumentati, diventando di fatto la sostituzione fittizia del finanziamento che il referendum vietava. Furono prima il governo Monti e quindi il governo Letta ad azzerrare gradualmente anche i rimborsi elettorali. Si sono poi moltiplicate le Fondazioni, per tentare di aggirare i vincoli posti alle donazioni ai movimenti politici.

Oggi, i partiti, per coprire i loro costi di gestione, possono contare sul 2 per mille dell’Irpef, che i cittadini possono sottoscrivere liberamente in sede di dichiarazione dei redditi, e sulle “erogazioni liberali” private, registrate, fino al limite di 100.000 euro l’anno, possibili da parte di qualsiasi cittadino ed anche da società. E proprio qui si trova il cortocircuito, in quel limite così elevato che può essere erogato da imprenditori che, con una mano possono elargire lecitamente denaro ad un movimento politico, e con l’altra sollecitare un appalto, o l’accelerazione di una pratica.

La partecipazione dei cittadini alla vita pubblica

Quel limite massimo dovrebbe essere drasticamente diminuito, così come sono incomprensibili, e dovrebbero essere vietate, le erogazioni a partiti da parte di persone giuridiche. Allo stesso tempo il ripristino di un rinnovato e moderato finanziamento pubblico, dovrebbe sostenere, non solo i movimenti politici esistenti, ma anche tutte le forme di associazione e partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. In ogni caso il finanziamento pubblico può allontanare la tentazione di scivolare verso finanziamenti illeciti e contribuire a rendere più chiaro, anche per la magistratura, il confine fra il lecito ed il reato.

Centomila cittadini che finanziano la campagna elettorale di un movimento politico con dieci euro ciascuno, impegnano moralmente l’eletto a non tradire le promesse elettorali. Lo stesso finanziamento di un milione di euro realizzato da 10 imprenditori con versamenti di centomila euro ciascuno, invece, non può che rappresentare un serio problema. Anche se ad oggi formalmente consentito, il sospetto di inciuci è legittimo e politicamente rilevante.

Immagine generata dall’intelligenza artificiale

Legami patologici fra amministratori e consorterie

Ciò che disturba i cittadini, ancor prima degli odiosi reati di corruzione e concussione, sono quei rapporti intimamente confidenziali che troppo spesso intercorrono tra amministratori della res publica con il mondo economico e della finanza. Essi sono prodromi di legami patologici che possono sfociare nell’illecito.

Altrettanto irritante, inoltre, è quel rapporto privilegiato con consorterie economiche, le cui proposte relative a Piani Regolatori, destinazioni d’uso e scelte urbanistiche, calate dall’alto, trovano immancabilmente accoglienza e percorsi facilitati. Sembra così anche nella nostra città, quando vengono assunte decisioni urbanistiche strategiche, al di fuori di una reale attiva partecipazione dei cittadini.

Ma su questo non c’è finanziamento pubblico che possa porre rimedio. È una questione di visione del futuro, oltre che di sensibilità verso i cittadini.

© RIPRODUZIONE RISERVATA