Quando il dolore e l’angoscia di tutta una comunità entrano nella nostra vita, la nostra anima vive un sussulto di sconvolgente drammaticità. Sentiamo il bisogno di parlare, di condi­videre, di confrontarci per capire, anche per sfogarci e per chiederci come sia possibile che sia accaduto, che possa accadere, quello che ci sembrerebbe appartenere a un altro mondo, a un altro tempo, ad altri modelli sociali. Da un po’ di tempo questi eventi- terremoti, guerre, violenze – ci sono comunicati e trasmessi dai mass-media. Ma ce ne sono alcuni che incredibilmente spostano ancora, oltre il pensabile, i limiti che in qualche maniera ci eravamo abituati ad accettare per l’usura dei processi comunicativi, ma soprattutto per la convinzione che si trattasse di “fatti lontani” dalla nostra vita ordinaria.

La tragedia di Vigonovo appartiene a quest’ultima categoria, come il dramma di Novi Ligure (2001) o l’infanticidio di Cogne (2002), ma ha caratteristiche ancor più terribili e sconvolgenti, per­ché riguarda i nostri figli, il loro ordinario, sicuro abituale train de vie o quello che pensiamo sia tale.

Il caso di Vigonovo ci sconvolge, ci coinvolge, ci interpella, perché non siamo in presenza di ambienti marginali, degradati, incolti, abitualmente regolati dalla prepotenza e dalla violenza di gang o di famiglie malavitose; non abbiamo, almeno apparentemente, a che fare nemmeno con situazioni individuali estreme. Siamo di fronte alla violenza del compagno di banco, dell’amico che frequentiamo sul treno, della persona che incontriamo tutti i giorni e con la quale percorriamo serenamente un tratto di vita, della quale mai avremmo potuto pensare che arrivasse oltre i limiti inferiori dell’u­mano.

Scuola, un intervento invocato

Di fronte alla tragedia delle relazioni, ormai è un’abitudine, un grido si leva da ogni parte: deve intervenire la scuola. Ma da parte di non poche e non pochi docenti impegnati e consapevoli della complessità del nostro tempo si leva un altro e più forte lamento: siamo soli, non possiamo assumerci tutte le responsabilità; devono aiutarci le famiglie, le strutture sociali, la politica stessa.

Il tema del giorno è la violenza implicita della società patriarcale, della quale, si va ripetendo, ancora portiamo dentro di noi le tracce. Il pensiero comune è che l’edu­cazione possa aiutarci a superare schemi mentali e atteggiamenti automatici obsoleti e inadatti alle caratteristiche della società evoluta contemporanea. Non possiamo non essere d’accordo sul valore dell’educazione, come non possiamo non condividere l’idea che vada cambiata la cultura comune.

Tuttavia è bene che, non dico una volta per tutte, perché questo non è possibile, ma almeno cogliamo questa occasione tragica per una riflessione non istintiva, non superficiale, non rispondente all’idea che nella società di oggi basti attivare qualche iniziativa perché le cose cambino. In tante occasioni, anche di recente, ho ribadito che nella cultura, nella società, di oggi dobbiamo abbandonare schemi istintivamente ancorati a modalità superate.

L’educazione non è un fenomeno per il quale valgano le leggi meccaniche di causa ed effetto. Bisogna lavorare molto, in continua­zione non solo con incontri e conferenze, ma con interventi nella vita quotidiana della scuola, nella fisiologia delle relazioni e in un atteggiamento di riflessione conti­nua su quanto accade fra noi.

La cultura delle relazioni

Per fare un esempio, sono assolutamente convinto che si possa agire maggiormente sulla cultura delle relazioni leggendo poesie e studiando romanzi, ancor più che con prediche e catechizzazioni di tipo ideologico, politico, psicologico e psicoterapeutico. La mentalità si cambia dopo lunga sedimentazione e grazie a comportamenti condivisi, con il superamento degli schemi istintivi, con lo scardinamento di atteggiamenti passivamente ereditati da livelli antropologici oggi non più coerenti con la complessità contemporanea.

In quella che definiamo Knowledge Society, ovvero Società della Conoscenza, non valgono più i rapporti di forza e di paura, di supremazia e sottomissione, ma quelli di lealtà e trasparenza, di stima e disponibilità, di ascolto e condivisione.

Per arrivare a questo dobbiamo compiere un salto di qualità enorme. Dobbiamo interiorizzare tutti: padri, madri, nonne e nonni, docenti e presidi, politici e capitani d’industria, intellet­tuali e sportivi, operatori sociali e manager, che non può aver più cittadinanza nel mondo contemporaneo l’idea che esistano prerogative esclusive di un sesso (o come si dice oggi, di un genere) piuttosto che di un altro.

La tenerezza e la dolcezza, la sensibilità e il sentimento non sono indicatori di debolezza e tanto meno modalità dell’anima peculiari ed esclusivi della dimensione femminile. Siamo ancora convinti che queste dimensioni del vivere e del rapportarsi – storicamente e culturalmente isolate, direi perfino ghettizzate, come esclusive della dimensione femminile da una mentalità che vede ancora nella forza, nella affermazione e nel successo il principio fondante dell’identità maschile – non possano essere proprie anche della interiorità maschile. Anzi: quasi si è convinti che i maschi non abbiano, non debbano avere interiorità!  

Non usciremo da queste sabbie immobili fino a quando non ci renderemo conto che il soffrire per una parola che ferisce, il condividere passioni e sentimenti, il bisogno di affetto sincero, perfino l’urgenza di piangere e soffrire di fronte alle difficoltà della vita sono il segno indubitabile dell’intelligenza e della capacità di rapportarsi con il mondo: sono perciò atteggiamenti propri anche di una interiorità maschile evoluta, colta e raffinata. Sono indicatori certi della maturità della persona, a prescindere da sesso, razza o lingua.

La capacità di essere se stessi

Finisco dicendo che solo in un contesto scevro da pregiudizi anche il rapporto d’amore potrà ridefinirsi in una prospettiva di libertà e rispetto. Ciò che ognuna e ognuno deve fare è essere capaci di essere se stessa e se stesso. Ogni persona deve accettarsi e farsi accettare per quello che è e accettare le altre persone per quello che sono. La fisiologia delle relazioni sane non ha bisogno di prediche, ma di esempi e impegno comuni. Amare significa innanzitutto essere leali e sentire dentro di sé il bisogno di un’altra persona che ci completi e arricchisca; dia un senso al nostro vivere, ma nella libertà e nel rispetto reciproco.

L’attra­zione fisica è importante. Non dirò mai che è secondaria. Il rapporto d’amo­re, quello vero, esige una confidenza totale anche fisica. Ma la fisicità non sorretta da una semantica profonda e sincera dei sentimenti è come una chiacchiera insensata, un narcotico che porta al degrado di sé e dell’altro.

Un processo che inevitabilmente innesca fenomeni sadomasochistici di violenza e prepotenza, di voluttà della conquista e dell’essere conquistati. L’amore vero, che può nascere anche in età giovanile, non è liberante e autentico, se non fa crescere e maturare, se non diventa un cammino e sa essere in grado di dare ancor più che di prendere.

La vicenda di Giulia e Filippo non deve restare un episodio di cronaca. È una storia che ci provoca e interpella e richiede a tutti un salto di qualità nella dimensione dell’essere e dell’esistere.

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