Ha perso 35 chili e i parametri vitali sono al limite, ma il detenuto anarchico Alfredo Cospito ha dichiarato che non si fermerà finché lo Stato non abolirà in via definitiva, per lui e per tutti i detenuti, il regime del 41-bis, ovvero il cosiddetto “carcere duro” introdotto in Italia dalla legge n. 663 del 10 ottobre del 1986 e integrato con un comma aggiuntivo all’alba delle stragi di mafia del 1992, con lo scopo preciso di impedire ai capi mafiosi qualsiasi contatto con le loro organizzazioni criminali dentro e fuori dal carcere. E Alfredo Cospito è il primo e unico detenuto in Italia non affiliato ad associazioni mafiose al quale è stato applicato il regime del 41-bis.

Cospito è detenuto per le condanne seguite a due attentati di cui è responsabile: il primo riguarda l’esplosione notturna di due ordigni a basso potenziale avvenuta il 2 giugno 2006 a Fossano, in provincia di Cuneo, davanti alla scuola allievi ufficiali dei carabinieri. Un atto che è stato qualificato come tentata strage, anche se non ha provocato né morti né feriti, e per il quale Cospito è stato inizialmente condannato a 20 anni di carcere. Dopo le due condanne in primo grado e in appello, nel luglio scorso la Cassazione ha riqualificato l’episodio come attentato politico alla sicurezza dello Stato, reato previsto dall’articolo 285 del codice penale e punito esclusivamente con l’ergastolo, anche ostativo (l’ergastolo ostativo rappresenta una tipologia specifica di pena detentiva, che oltre ad essere perpetua, rispetto all’ergastolo “semplice” impedisce al condannato di accedere a misure alternative o ad altri benefici di legge, ndr). L’altra condanna a 10 anni e 8 mesi riguarda il ferimento avvenuto a Genova il 7 maggio 2012 dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi, rivendicato dalla FAI (Federazione Anarchica Informale).

Ora, in base all’ordinamento penitenziario, il 41-bis è un regime che prevede l’isolamento pressoché totale dagli altri detenuti per ogni attività, a partire dall’ora d’aria. Il detenuto è costantemente sorvegliato da un reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria il quale, a sua volta, non entra in contatto con gli altri agenti penitenziari. Anche i colloqui con i familiari sono limitati per numero e durata, e qualsiasi contatto fisico è impedito da un vetro divisorio a tutta altezza. Niente telefonate, niente libri né giornali, niente fotografie appese al muro della cella di isolamento che contiene solo un letto, un tavolo e una sedia inchiodata al pavimento. La corrispondenza, sia in entrata che in uscita, è sottoposta ad un rigoroso visto di controllo.

Nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (C.P.T.) ha visitato le carceri italiane per verificare le condizioni di detenzione dei soggetti sottoposti al regime del 41-bis. Ad avviso della delegazione, questa particolare fattispecie di regime detentivo era risultato il più duro tra tutti quelli presi in considerazione durante la visita ispettiva. La delegazione intravedeva nelle restrizioni applicate gli estremi per definire i trattamenti come inumani e degradanti. I detenuti erano privati di tutti i programmi di attività e si trovavano, essenzialmente, tagliati fuori dal mondo esterno. La durata prolungata delle restrizioni provocava effetti dannosi che si traducevano in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili.

Nel caso di Alfredo Cospito, il 41-bis è stato motivato da alcuni scritti che il detenuto ha pubblicato on line e su riviste di area anarchica, nei quali rivendica “l’azione diretta come prassi che implica uno scontro con le armi in pugno contro il sistema”, ed esorta i compagni a non rinunciare alla violenza in tutte le sue sfumature. Secondo i giudici, questi scritti proverebbero un collegamento tra Cospito e i sodàli anarchici fuori dal carcere, e per questo è stato considerato il capo e l’ispiratore di un’associazione eversiva, la FAI appunto. Tuttavia, è stato dimostrato come l’organizzazione in questione non esista più dal 2012, nonostante alcuni soggetti isolati abbiano continuato anche successivamente a compiere attentati politici, rivendicati con questa sigla.

Cospito ha inoltre sempre negato di aver mai fatto parte di un’organizzazione, definendosi un “anarchico individualista”. E’ chiaro, dunque, come la sussistenza dei presupposti per l’applicazione del 41-bis nel suo caso sia fortemente dubbia, motivo per il quale l’avvocato Flavio Rossi Albertini ha presentato un ricorso in Cassazione contro il Tribunale di Sorveglianza di Roma, che aveva rigettato il reclamo di Cospito contro il provvedimento del carcere duro. Rossi Albertini ritiene infatti che la motivazione addotta dal Tribunale di Sorveglianza sia una motivazione apparente, in particolare per quanto riguarda la reale sussistenza di un’organizzazione attiva ed esterna al carcere, la cui esistenza è condizione essenziale per l’applicazione del regime del 41-bis. In sostanza, se fuori non esiste alcuna organizzazione, il 41-bis sarebbe illegittimo.

Inoltre, per una coincidenza temporale del tutto casuale, lo stesso giorno in cui il Tribunale di Sorveglianza ha confermato il carcere duro per Cospito, la Corte d’Assise d’Appello di Torino ha invece negato l’ergastolo al condannato, come chiedeva l’accusa, sollevando una questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta, e chiedendo alla Corte Costituzionale se non sia irragionevole, e quindi contrario ai princìpi fissati dalla Costituzione, impedire di valutare l’attenuante della cosiddetta “tenuità del fatto” per un attentato che non ha provocato vittime né feriti, e di poter quindi adeguare la pena anche ai danni realmente provocati, secondo criteri di proporzionalità.

Alfredo Cospito, in un’immagine di qualche tempo fa

Ma al di là di quelli che potrebbero apparire dei tecnicismi giuridici, si nascondono in realtà questioni dirimenti alle quali lo Stato non può esimersi dal dare una risposta coerente con i suoi principi fondanti, senza rischiare di gettare in una crisi profonda la legittimità della sua stessa auto-rappresentazione: fino a che punto può spingersi la risposta repressiva dello Stato contro le azioni, anche violente, dei suoi cittadini?

E ancora: come può lo Stato accettare il fatto che un detenuto stia concretamente rischiando di morire per una protesta pacifica all’interno di un carcere, quando l’art. 27 della Costituzione italiana afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”?

Alfredo Cospito non ha fatto filtrare clandestinamente alcuna comunicazione all’esterno. I suoi sono proclami pubblici, diffusi attraverso il web o pubblicati da riviste anarchiche, firmati con nome e cognome e passati dal carcere all’esterno attraverso regolari canali postali. La verità, dunque, è che la censura postale all’interno del carcere non ha funzionato correttamente, ma invece di ammetterlo e spingere i giudici a ordinare verifiche e controlli più stringenti sulla corrispondenza postale del detenuto, lo Stato ha scelto di accusare Alfredo Cospito di essere il capo di un’organizzazione terroristica che continuerebbe a dirigere dal carcere, estendendo così in maniera quantomeno discutibile la ratio di un regime che, nel 2003, Amnesty International ha sostenuto equivalente in alcuni casi ad un trattamento del prigioniero “crudele, inumano e degradante”, e che nel 2007 ha convinto un giudice degli Stati Uniti a negare l’estradizione del boss mafioso Rosario Gambino, poiché a suo avviso il 41-bis sarebbe assimilabile alla tortura.

Se Alfredo Cospito dovesse morire in carcere per l’eccessivo prolungarsi del suo sciopero della fame contro il regime del 41-bis, per lo Stato italiano si aprirebbe dunque una voragine di senso, umano e giuridico, che rischierebbe di inghiottire molti, troppi dei princìpi fondanti che determinano la legittimità della sua azione.

Al contrario, riconoscendo che la vita del detenuto Alfredo Cospito è più importante delle interpretazioni giuridiche delle sue azioni si aprirebbe nel Paese un dibattito, coraggioso e necessario, sulla reale efficacia dell’azione dello Stato per attuare quell’articolo 27 della Costituzione che, tra tutti, è forse quello che maggiormente definisce il livello di civiltà di un Paese.

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