Stefano Rizzardi: una storia veronese
La vicenda di Stefano Rizzardi, medaglia d'oro della Repubblica Sociale Italiana, narrata dal pronipote Stefano Ederle.
La vicenda di Stefano Rizzardi, medaglia d'oro della Repubblica Sociale Italiana, narrata dal pronipote Stefano Ederle.
Vogliamo raccontare una storia molto veronese. Parla di due fratelli di famiglia nobile, Rizzardo e Stefano Rizzardi, uno sopravvissuto e l’altro ucciso non ancora maggiorenne sul fronte di una guerra che trova ancora poco spazio sui libri, forse perché si inserisce tipo dettaglio trascurabile in un conflitto ben più impegnativo. E, si sa, i libri non devono pesare troppo sulle spalle degli studenti.
Incontriamo un discendente della famiglia, l’avvocato Stefano Ederle, già consigliere comunale con Alleanza Nazionale. Sono ormai passate diverse settimane dal 10 febbraio, data che ricorda l’esodo italiano dalla Jugoslavia sotto la spinta della violenza titina; Ederle è rientrato nella normalità veronese, dopo la visita annuale nelle terre che hanno visto combattere suo nonno e il fratello. Prima di sentire il suo racconto, pare utile ricordare i fatti storici a contorno.
Verona nel periodo successivo all’Armistizio, firmato l’8 settembre 1943, è un punto nevralgico della Repubblica Sociale Italiana istituita dal Fascismo. Sono mesi confusi, si perdono le certezze sulle idee dell’altro e, nel dubbio tra amico o nemico, ci si guarda con sospetto. La nostra città vive momenti di incertezza, tra chi si strappa via l’uniforme e torna a casa, chi raggiunge le truppe Partigiane e chi invece resta cocciutamente fascista fino alla fine.
Ma la confusione di Verona non è nulla al confronto di quanto accade nello stesso periodo al confine orientale dell’Italia, che si estende alla provincia di Lubiana, l’Istria e la Dalmazia. Terre che, con il ritiro delle truppe tedesche, vengono reclamate dai titini. È il periodo della violenza contro gli italiani, spinti con ogni mezzo a lasciare quella che per loro è casa. Gli italiani vengono sottoposti a percosse, arresti arbitrari, abusi sessuali, uccisioni efferate. Ogni mezzo è utile alla pulizia etnica jugoslava, anche le foibe.
Avvocato Ederle, in un clima così pericoloso suo zio decide di partire per il fronte. È solo un ragazzino, si arruola come volontario. Si è mai chiesto perché?
«Per mio nonno e mio zio difendere la Patria era un dovere, specialmente in una zona allora tutta italiana minacciata dai partigiani titini, che massacrarono migliaia di civili italiani. Il loro padre, mio bisnonno, combatté come ufficiale sul fronte greco-albanese. Mio zio partì volontario, mio nonno, chiamato alla leva, lo seguì.
Per moltissimi anni, mio nonno non parlò della guerra con nessuno. Erano ricordi molto dolorosi, specie non esser riuscito a salvare il fratello, o almeno a recuperarne il corpo. Solo nell’ultimo anno prima di morire me ne ha parlato, raccontando i dettagli dei suoi ricordi.»
Inizia così la sua personale ricerca, una storia che ricorda, seppur con forti differenze, il libro “Ogni cosa è illuminata” di Jonathan Safran Foer. In quel caso di tratta di ebrei sterminati dai nazisti, nel suo di un soldato della RSI ucciso dai titini. In entrambi, però, si percepisce il dolore per i morti e una ricerca della verità. La morte non ha colore politico, è d’accordo?
«Tanti ragazzi veronesi all’epoca partirono, tutti insieme, e fecero una brutta fine. Non c’è famiglia storica che non pianga un morto su quel fronte. Ho parlato con Giorgio Bragaja, ex deputato del Partito Comunista Italiano, che visse un dolore come il nostro. Suo fratello Sergio, di 19 anni, fu ucciso insieme a mio zio. Ho ascoltato anche i racconti dei parenti del Conte Carletto Giusti dei Giardini, grande amico di mio nonno, caduto davanti i suoi occhi nel dicembre del 1943.
Guardi le foibe: dovrebbero unirci come italiani e invece ci dividono ancora. Sono una sorta di “olocausto degli italiani”, eppure ogni anno ripartono le stesse polemiche. Ogni morto dovrebbe unire, non conta il colore. Solo così si imparano le lezioni della Storia.»
Stefano Rizzardi viene messo a difesa della stazione di Auzza, suo fratello poco distante, a Santa Lucia d’Isonzo. Da una ricostruzione, dopo pochi giorni dall’arrivo il plotone viene catturato dai partigiani titini e suo zio avrebbe dichiarato di essere l’unico volontario per salvare la vita agli altri. Viene freddato con un colpo alla nuca, seguito da Sergio Bragaja. Al di là dei dettagli evidentemente nostalgici della narrazione, suo zio è un eroe di guerra e ha quasi avuto una via veronese con il suo nome…
«Era solo un ragazzino ma ci sono dei fatti a dimostrazione del suo valore. Quando decise di partire, prese il posto di un coscritto partigiano, Vito Pallaro. I ricordi dei sopravvissuti sugli ultimi attimi di vita gli valsero la Medaglia d’Oro della RSI.
E ci fu un momento in cui, su iniziativa di Luisa Caregaro della Prima Circoscrizione di Verona, si propose di intitolargli una via. La proposta partì da sinistra, fu approvata all’unanimità, si guardò oltre le divise. Poi la domanda in Prefettura si deve essere fermata da qualche parte. La divisa “sbagliata” è ancora un tema pesante.»
Dopo le ricerche, incrociando i pochi elementi certi con i racconti della gente del posto, è riuscito nell’impresa che sembrava impossibile, quel pensiero fisso di suo nonno e mai realizzato. Ha ritrovato la tomba di Stefano Rizzardi.
«Sono andato a cercarlo: ho visto il casello ferroviario dove l’hanno catturato e sono stato dove, secondo i testimoni, è stato detenuto e torturato. Anche il luogo esatto in cui è stato ucciso. Il casello è ora ricovero per attrezzi di uno sloveno che mi ha aiutato a ricostruire dove è sepolto mio zio. Sapevo solo che la fucilazione era avvenuta dietro una scuola e, attraverso gli anziani del luogo, ho trovato la sua tomba.
Mi aspettavo un luogo senza nome, ma ho scoperto che la gente del paesino di Lom, vicino a Tolmino aveva avuto pietà di due ragazzini, li aveva tolti dalla fossa comune e sepolti nel piccolo cimitero. “Erano quasi della nostra età, li abbiamo adottati come paesani” mi raccontarono i due anziani che ne avevano curato la tomba con piante e fiori per oltre 75 anni. Ora sono morti anche loro, per il Covid, ma negli anni ci siamo sentiti spesso, abbiamo mangiato e bevuto insieme.
Hanno dato sepoltura a due “nemici”. Va detto che erano tempi assurdi in quelle zone, le alleanze cambiavano di continuo. Da una parte c’erano i titini, dall’altra i partigiani bianchi alleati ai titini; poi gli ustascia croati, non proprio anime candide. E i tedeschi teoricamente alleati della RSI ma spesso contro. Ognuno impegnato nella propria guerra.»
Eppure, anche in una situazione di violenza pura e gratuita, si trovano animi nobili, qualcuno che va oltre l’appartenenza ideologica.
«Questo è il messaggio giusto da trasferire. Mio nonno non parlava della guerra, ma lo faceva volentieri della gente comune, di come gli sloveni fossero brave persone, solo stanchi perché ogni giorno arrivava un padrone nuovo. E sono finiti anche loro nei campi titini. Seguendo la storia di mio nonno, ho incontrato Leonello Rossi, padre del comico, che era in prigionia con lui a Tolmino in attesa di essere interrogati e torturati dai commissari politici titini, anche se non si conoscevano. Racconta che con gli italiani c’erano tantissimi sloveni e croati, antifascisti e anticomunisti. Nelle foibe lo stesso, buttavano dentro innocenti e nemici insieme, tutte le persone scomode.»
Che è poi la stessa cosa accaduta nei campi di concentramento fascisti e nazisti, usati per gli ebrei ma anche per oppositori politici e renitenti alla leva. La storia che si ripete, uguale a se stessa. Per i morti di quel periodo si percepisce ancora la volontà di non ricordare, figlia di un giudizio a posteriori, un terribile “se la sono meritata”. Forse però è arrivato il tempo di fare i conti con quella Storia, di far pace con i morti. Magari perfino di intitolare una via a suo zio.
«L’uomo non impara mai, continua uguale. Mio nonno ha raccontato cose indicibili, anche lui è morto là in un certo senso, in quei luoghi bellissimi, paesaggi di fiaba. Sembra un’ironia del destino. Finita la guerra, i titini proposero la restituzione del corpo a condizione di ricevere un pagamento ma il mio bisnonno si rifiutò di pagare gli assassini del figlio e lo zio Stefano è rimasto e rimane là.
Allo stesso modo, lasciamo perdere la questione della via. Fu un’iniziativa apprezzata, ma so che se ne parlerebbe con i soliti toni, creando dibattiti e divisioni. Mio zio vive in noi, in me che ne porto il nome con orgoglio e in quei luoghi dove tanti ragazzini come lui trovarono la morte.»
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