“Sarebbe bello spiegare ai ragazzi delle medie che le foibe le hanno inventate i fascisti, sia come sistema per far sparire i partigiani jugoslavi, che come invenzione storica. Tipo la vergognosa fandonia della foiba di Bassovizza»”: così scriveva su Facebook, solo due anni fa, l’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Rovigo; l’Anpi nazionale, tuttavia, subito prese le distanze. È però innegabile che il Giorno del Ricordo accenda periodicamente polemiche e il motivo di tanta diffidenza di una certa parte politica è nelle genesi della celebrazione.

Istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92, sotto il secondo governo Berlusconi, venne da alcuni percepita come tentativo di imporre una narrazione storica che pareggiasse le tragedie perpetrate dai nazifascisti. Non a caso, nel 2003, Fausto Bertinotti affermò nel momento in cui si dibatteva sulle proporzioni della tragedia: «Se si fa una manipolazione verso l’alto e si parla di 350.000 vittime delle Foibe si accredita la tesi che si è di fronte ad un genocidio nazionale. Al contrario la manipolazione verso il basso tende a confinare l’idea che in quelle fosse c’erano solo fascisti colpevoli che con metodi, sia pure discutibili, hanno avuto la loro punizione storica. Io penso che, in una ricostruzione storica avvertita, si configuri un fenomeno che non è riportabile né al genocidio né alla giusta punizione di qualche rigurgito fascista.» Giorgio Napolitano, nel 2007 come presidente della Repubblica in carica, così invece si espresse: «Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”».

Per fare chiarezza oltre il conflitto ideologico abbiamo interpellato Renato Camurri, docente di Storia contemporanea all’Università di Verona e che ha organizzato il webinar con Mila Orlić – Assistant Professor del Dipartimento di Storia dell’Università di Rijeka ed esperta dei conflitti avvenuti nella zona dell’Alto Adriatico – dal titolo: “Identità e confini in costruzione. L’Alto Adriatico dopo la Seconda Guerra Mondiale” (si possono risentire i contenuti della lezione a questo link, ndr).

Il professor di Storia Contemporanea all’Università di Verona Renato Camurri

Professor Camurri, il 10 febbraio si celebra la Giorno del Ricordo. Qual è il suo primo pensiero?

«Una delle pagine più complesse e tragiche del Novecento. Si tratta di eccidi ai danni di militari e civili italiani della Venezia Giulia, del Quarnaro e della Dalmazia – avvenuti durante la Seconda guerra Mondiale (nel 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre) e nell’immediato secondo dopoguerra (primavera-estate del 1945) – da parte dei partigiani jugoslavi e della OZNA, la polizia politica e di sicurezza comunista. Il termine foibe, che riguarda la sorte di una parte degli italiani uccisi, si riferisce a caverne verticali in cui vennero gettati i corpi, spesso ancora vivi, di molte di queste vittime.»

È una vicenda davvero complessa?

«Molto, perché si intersecano, ciascuno con un proprio ruolo, un proprio spazio, tutta una serie di elementi che meriterebbero di essere analizzati di per sé e poi necessariamente da inserire in un contesto più ampio. Innanzitutto, non è una tragedia locale ma un laboratorio nazionale e internazionale, in cui si innesta un cortocircuito di processi storici che hanno radici di lungo periodo. Dal punto di vista metodologico ci sono piani diversi da considerare: quello della ricostruzione storica, su cui la storiografia internazionale e pure slava, croata e slovena ha prodotto molto negli ultimi decenni; quello che riguarda gli attori e i contesti in cui si verificano queste vicende e quello dell’interpretazione storiografica che è stata data e che non sempre è convergente nelle valutazioni. Infine l’ultimo, quello della “guerra della memoria”, ovvero delle politiche della memoria che sono state attuate in quei territori spesso in contrasto tra loro. Questi piani di analisi vanno tenuti separati: diversamente produciamo confusione ed errori interpretativi.»

Perché è ancora così difficile discutere con serenità di questa tragedia? È mancato un rito “espiatorio”, un evento “riparatore” come può essere stato il processo di Norimberga per i crimini nazisti?

«Oggi parlarne non è più tabù, tuttavia è necessario rimanere nell’alveo della ricostruzione storica senza farsi trascinare dalle distorsioni del conflitto politico-ideologico. Si sono sviluppate polemiche molto accese anche a causa della scarsa conoscenza del fenomeno e l’assenza di un approccio metodologicamente serio ha impedito una serena valutazione dei fatti. Le difficoltà per la ricerca sono notevoli, prendiamo la questione dei numeri: ci sono punti di vista diversi perché non si è giunti ancora a una quantificazione per tutti convincente a causa del difficile accesso ai documenti (italiani, jugoslavi e americani), del problema del recupero delle salme a causa delle caratteristiche morfologiche delle foibe, della collocazione delle vittime in particolari categorie, come per esempio la distinzione tra vittime delle foibe e dei campi di concentramento croati. In queste condizioni la confusione facilita la nascita di polemiche spesso strumentali.»

Una stima secondo lei accettabile dal punto di vista storico?

«Una stima di Raoul Pupo, storico dell’Università di Trieste, che su questo tema è voce autorevole, va dalle 3000 alle 5000 vittime delle foibe. Come vede, una forbice molto ampia, figlia di questa difficoltà oggettiva.»

Molto spesso a riempire i vuoti della ricerca hanno svolto un ruolo importante le testimonianze dei sopravvissuti.

«Il fatto è che per lungo tempo ci si è basati sulle testimonianze dei sopravvissuti, che certo restituiscono il senso della tragedia ma che, dal punto di vista storico, hanno un valore limitato: la memoria è spesso condizionata da vari fattori esterni e legati alla stessa personalità del testimone. Inoltre, tendenzialmente varia nel tempo.»

Anche il silenzio delle istituzioni su questo tema per molti anni non ha aiutato la ricerca…

«Negli anni dopo il ’45 fino al Trattato di Osimo, che chiude il contenzioso sui confini, esiste sia da parte slava che italiana una serie di convenienze diplomatiche a non ritornare sulla questione e che, sommandosi alle difficoltà della ricerca storica cui accennavamo prima, di fatto ha contribuito a far scendere una coltre di nebbia intorno sul tema. D’altronde, questa vicenda per certi versi è paragonabile con il rinvenimento nel 1994 dell’armadio, in un locale di palazzo Cesi-Gaddi in via degli Acquasparta, dei dossier sui crimini di guerra nazifascisti compiuti in Italia dopo l’armistizio: anche qui, la necessità di ricostruire rapporti diplomatici in una nuova realtà politica sotto l’ombrello statunitense, quella della NATO, della CECA e della CEE con la condivisione delle risorse per la ricostruzione, imponeva un clima di distensione e il silenzio su questioni giudiziarie potenzialmente divisive. Allo stesso modo, con la Jugoglavia si presentava la necessità di consolidare rapporti diplomatici e interessi commerciali. Non dimentichiamo inoltre altri due fattori: la posizione ambigua del PCI che non aveva convenienza ad affrontare la questione e la Guerra Fredda.»

È un evento riconosciuto anche dalla comunità istriana, slovena e croata?

«In verità è prevalsa un’interpretazione in chiave nazionalistica, per cui la questione storica non è stata inserita in un quadro più ampio. In una battuta: non è che quel che successe nel ‘43 e nel ‘45 accade per caso. Dobbiamo considerare le collocazioni dei protagonisti nel corso del conflitto, le alleanze, i contrasti e le diverse forme di collaborazionismo e che parliamo di territori occupati dalle potenze straniere (tedeschi e italiani). Comunque sia, certamente questa vicenda non è ancora divenuta un patrimonio comune e condiviso di quei territori.»

La vicenda di Norma Cossetto viene molto citata come esempio della crudeltà dell’evento. Addirittura, in un articolo viene definita “una splendida eroina”. La sua valutazione da storico? Glielo chiedo perché in un’intervista sulla rivista “Malora” per la presentazione del libro “E allora le foibe?” l’autore e storico Eric Gobetti afferma che “la famiglia di Cossetto è fascista e viene colpita in quanto rappresentante delle istituzioni fasciste” e che, quindi, alla fine la figura della ragazza venga “usata strumentalmente”. Concorda?

«Sul caso specifico di Norma Cossetto non mi esprimo, ma un punto mi pare chiaro: la violenza della resistenza jugoslava che si scatena nell’autunno del ‘43 e del ‘45 colpisce gli italiani, ma con maggiore accanimento verso alcune categorie. Ad esempio, i grandi proprietari terrieri, nel mirino delle minoranze slave oltre che naturalmente gli esponenti delle istituzioni fasciste sul territorio. Tra le vittime, però, ci furono anche antifascisti del CLN e di movimenti autonomisti: figure ritenute pericolose dal regime titino che non poteva permettersi alcun tipo di opposizione interna. A queste aggiungiamo i delitti frutto di vendette personali, come accadde in Italia subito dopo la guerra quando iniziò la resa dei conti.»

Su cui Giampaolo Pansa ha scritto molto.

«Sì, qui però di fatto si tratta di una tragedia che non ha riguardato solo coloro che erano collegabili al regime fascista, ma che ha coinvolto tutti quelli che venivano percepiti come nemici del regime comunista.»

Un libro che consiglierebbe per approfondire la questione?

«Ce ne sono molti. Adatto a un pubblico di non specialisti consiglierei di Raoul Pupo e Roberto Spazzali Foibe, Bruno Mondadori: un ottimo testo, essenziale, completo e ricco di documenti. Sempre di Pupo, che considero lo storico più equilibrato, suggerirei anche Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio oppure Trieste ’45

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