Una Piazza Isolo a Verona affollata da più di 200 persone e non per il rito dello spritz nel tardo pomeriggio del 14 aprile, colorata da striscioni rossi nel colore e nello spirito, contro i fascismi e gli squadrismi che senza tregua tentano di modellare storia e memoria nel tentativo di (ri)costruirsi una legittimazione che lo stesso arco costituzionale ripudia fin nelle proprie radici.

«Noi ricordiamo solo le guerre fasciste» ha chiosato durante l’evento Eric Gobetti, storico specializzato sul fascismo, sulla Resistenza e sulla Seconda Guerra Mondiale, autore del volume “E allora le foibe?” pubblicato da Laterza e presentato nell’incontro promosso dal Coordinamento antifascista di Verona.

Un evento di cultura storica, promosso per smontare ogni retorica del “buon italiano” spesso frainteso per la scelta dell’alleato sbagliato, una vulgata del “chiagni e fotti” che rischia, con le generazioni meno avvezze all’uso della memoria, di attecchire e giustificare i crimini peggiori della peggiore delle guerre mai combattute.

Qui il video dell’incontro

Violenza che genera violenza

Anzitutto Gobetti ha smontato ogni presupposto nazionalista alla base dei fatti del 1943 e del 1945: lo Stato italiano era «uno Stato nazione, cioè uno Stato che si identifica con un’unica nazionalità. Non solo, presto diventa uno Stato fascista, uno Stato autoritario, dittatoriale, ipernazionalista, con una prospettiva razzista che definisce e percepisce le popolazioni slave come inferiori dal punto di vista razziale, come ebbe a dire Mussolini in un discorso del 1920 a Pola.»

Non quindi una generica vendetta contro gli italiani tout court, ma una reazione contro il fascismo e i suoi esponenti locali esplosi dopo anni di violenza politica e fisica: «La violenza fa parte dell’azione politica dello Stato fascista, qualunque contesa politica si risolve con la violenza. Nel territorio di confine, le squadre fasciste operano da molto prima di prendere il potere e innescano una spirale di violenze che condurranno fino alle foibe e all’esodo. E lo fanno vent’anni prima di questa triste storia, a partire dall’incendio del Narodni Dom nel luglio del 1920, il palazzo della comunità slovena nel cuore di Trieste che viene dato alle fiamme di fronte alle autorità che, pur non ancora fasciste, non reagiscono.»

La comunità slovena

Riportiamo le lancette dell’orologio ai primi del Novecento: «Dobbiamo tener presente – dice lo storico – che all’epoca Trieste era la più grande città slovena, con più abitanti sloveni perfino di Ljubiana, l’attuale capitale della Slovenia. Quella comunità aveva un ruolo demografico, sociale, economico e culturale fondamentale nella città di Trieste. Nel 1922 i fascisti presero il potere ed emanarono leggi che miravano a colpire le identità diverse da quella italiana, costringendo le popolazioni locali ad italianizzarsi forzatamente. Come? Chiudendo le scuole di lingua non italiana, vietando l’uso di lingue diverse da quella italiana, costringendo le persone a cambiare nomi e cognomi, cancellando le identità culturali e linguistiche diverse da quella italiana.»

Eric Gobetti

«Le prime foibe, quelle del 1943, avvengono in piena Seconda Guerra Mondiale. Quel conflitto – riporta Gobetti – non viene acceso dai partigiani jugoslavi ma dai soldati italiani nel 1941, quando l’Italia, alleata della Germania di Hitler, invade la Jugoslavia, Paese fino a quel momento neutrale, e scatena la guerra in quei territori. Come se non bastasse, l’Italia combatte la Resistenza jugoslava con gli stessi metodi che useranno i tedeschi dopo l’8 settembre del ’43: rastrellamenti, operazioni militari che portano alla distruzione di interi villaggi, cattura di ostaggi e fucilazione per rappresaglia, con la creazione di campi di concentramento dove vengono internate più di 100mila persone.»

Solo la Polonia ha subito perdite più ingenti in rapporto al numero di abitanti, ha rimarcato Gobetti: «Non si può comprendere la violenza delle foibe se non si raccontano quei vent’anni di odio e di rancore che si è sviluppato nelle popolazioni locali e senza raccontare l’estrema violenza della Seconda Guerra Mondiale portata in quei territori dallo Stato fascista».

Le vittime civili

«Il campo di concentramento – ha spiegato lo studioso – si trova sull’isola di Arbe, vicino a Fiume in Dalmazia, e vi morirono circa 1500 persone di fame e di stenti. Un luogo del terrore e un luogo della memoria per lo Stato italiano, se si decidesse ad affrontare le proprie responsabilità. Invece è un luogo che credo molti di voi non abbiano mai sentito nominare» ha aggiunto ancora Gobetti. «Il campo di Arbe non ha mai avuto la visita ufficiale di nessun esponente delle istituzioni italiane. Sono passati 81 anni dall’invasione della Jugoslavia e non c’è mai ancora mai stato un riconoscimento ufficiale di quei crimini e di quel campo.»

Il libro di Gobetti “E allora le foibe?”

«Credo sia evidente che in questo territorio siano avvenuti tre episodi di violenza contro civili: il primo da parte dell’esercito italiano che combatte la resistenza, poi la reazione contro i funzionari dello Stato fascista, infine da parte dei nazisti che in una settimana uccidono 2500 civili nei rastrellamenti. Una strage cinque volte superiore delle vittime delle foibe» ha sintetizzato infine lo storico, che definisce moralmente e storicamente inaccettabile ricordare solo le vittime delle foibe, perché si assolvono le violenze commesse da fascisti e nazisti.

Un aspetto ideologico che si ricollega, ha ricordato Oreste Veronesi, all’istituzione a partire dal prossimo 26 gennaio della giornata nazionale degli Alpini, celebrando la battaglia del 1943 quando «l’esercito italiano a fianco dell’esercito nazista stava invadendo quei territori che oggi stanno subendo un’altra invasione. Scompare il fascismo dalla memoria pubblica e l’aspetto più tragico è che spesso iniziative come questa sono seguite in modo ingenuo anche da chi si professa democratico».

I partigiani italiani

Tra gli aspetti da ricollocare nella giusta prospettiva storica, anche la presenza in Jugoslavia di 30mila partigiani italiani, smentendo quindi il carattere nazionalista attribuito alle foibe: «Tra il ‘43 e il ‘45 la guerra contrappone fascisti e nazisti da una parte (affiancati da collaborazionisti italiani, francesi e di tutta Europa) e il fronte antifascista dall’altra (come partigiani comunisti e non, di tutte le nazionalità). Ovunque si combatte quel modello di sterminio, e la Jugoslavia non fa eccezione, con il suo esercito partigiano composto da oltre 500mila uomini che viene riconosciuto da tutte le forze belligeranti e rientra nel fronte antifascista. 10mila sono i caduti italiani di quell’esercito. Anche qui, perché non vengono ricordati questi caduti? L’intento ideologico è di scagionare il fascismo dalle proprie responsabilità» ha spiegato Gobetti.

«Anche nei territori jugoslavi nel 1945 l’esercito partigiano catturò e uccise decine di migliaia di collaborazionisti, di ogni nazionalità. Estrapolare i 4000 italiani da quel clima di violenza non ha senso dal punto di vista della ricostruzione degli eventi. L’intento era colpire i collaborazionisti e portare avanti la resa dei conti.»

Oreste Veronesi (a destra) con Eric Gobetti

Un evento, dunque, denso di contenuti e molto partecipato, a dimostrazione, come ha commentato Oreste Veronesi – fra gli organizzatori dell’incontro e moderatore al fianco di Gobetti –  di come «sia possibile parlare di temi tanto complessi con equilibrio e distacco, riconoscendo tutte le tragedie che hanno vissuto le popolazioni di quell’area.» E rilancia infine una iniziativa concreta e senza retorica: «Il percorso che ha portato all’incontro con Gobetti e che ci farà incontrare Eddi Marcucci mercoledì 20 aprile sta aprendo uno spazio a Verona. Uno spazio in cui si riconoscono persone non più disposte ad accettare censure e coperture istituzionali delle violenze dei gruppi neofascisti.»

Tutte le foto a corredo di questo articolo sono state scattate dai volontari dell’associazione culturale Yanez

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