Dopo lungo silenzio e messaggi mediati, non tutti amichevoli, il 15 novembre scorso i due presidenti delle potenze commerciali e politiche mondiali hanno avuto una riunione virtuale, anche loro contagiati da questa nuova moda introdotta dal Covid-19. Xi Jinping, leader del Partito Comunista e, quindi, della Repubblica Popolare cinese, e Joseph Biden jr., presidente degli Stati Uniti d’America, hanno chiacchierato e sorriso molto, concordato sui temi all’ordine del giorno e un po’ meno sugli strumenti e i processi per implementarli.

Solo una cosa li ha messi d’accordo: la diplomazia della cravatta, rossa per Biden e blu per Xi in ossequio e tributo ai colori preferiti dell’interlocutore.

«È bello vederla, signor presidente. – ha esordito Biden – Speriamo di riuscire a farlo di persona, come quando viaggiavamo insieme attraverso la Cina.» Fingendosi pentito per un esordio così informale, ha voluto rimarcare la lunga conoscenza tra i leader, cui ha prontamente ribattuto Xi Jinping definendo Biden “un vecchio amico”. Eleganza negli abiti così come nelle parole, almeno all’inizio, quando il clima distensivo ha preso il sopravvento.

Biden non fa in tempo a sgranare dal rosario un “credo sia nostra responsabilità assicurare che la competizione non degeneri in un conflitto” che subito Xi gli serve una metafora nuovissima, quella delle “due navi sulla stessa rotta, che devono far attenzione a non entrare in collisione”. Tutto nuovo, mai sentito. Uno scoop incredibile.

Poco si sa di quanto è avvenuto a porte chiuse, nelle oltre quattro ore di colloquio privato. Dalla nota stampa della White House, rileviamo alcuni dei temi rimpallati tra i due, mentre sulla violenza del colpo dovremo fare sforzo d’immaginazione.

La scelta dei tempi

Una cosa è certa, il momento per un tale incontro non è casuale: entrambi i presidenti sono usciti rafforzati dai recenti avvenimenti nei rispettivi paesi. Xi è stato confermato guida illuminata del Paese dalla plenaria del PCC, ricevendo di fatto l’invito a candidarsi di nuovo (e ancora, se un solo ulteriore mandato non bastasse per raggiungere la massima grandezza del Paese). Biden stava per firmare un pacchetto di stimoli infrastrutturali di tre trilioni di dollari, davvero tanti zeri anche per un cinese abituato ai grandi numeri.

È altrettanto vero che entrambi devono affrontare importanti questioni interne: Biden crolla nella popolarità e non si sa più districare dalla matassa Covid-Afghanistan-inflazione, mentre Xi sta riaprendo sotto silenzio le stesse miniere di carbone che aveva fatto chiudere in pompa magna per dimostrare il suo impegno per il clima. Evidentemente quando il petrolio scarseggia e quando il gas raggiunge prezzi incredibili, torna buona la vecchia miniera senza sicurezza per i lavoratori e a forte impatto ambientale. Mica uno può far lavorare le industrie solo sei ore al giorno, a turno pure, e pensare di portare la Cina a comandare il mondo.

Il commercio, gioia e dolore

Sicuramente il più pressante dei temi sul tavolo è stato questo, con entrambi i leader a difendere le proprie posizioni in una sorta di tiro alla fune che neanche in Squid Game l’hanno fatto tanto drammatico. È indubbio che le relazioni commerciali tra Washington e Pechino si erano deteriorate pesantemente con l’amministrazione Trump; altrettanto vero è che Biden ha conservato lo stesso identico approccio, improntato a dazi sulle importazioni e pressioni sull’osservanza dell’accordo di fase 1 USA-Cina firmato nel gennaio 2020 (valido fino al prossimo 31 dicembre).

Tale accordo chiede alla Cina di affrontare le  “distorsioni” alla correttezza commerciale e di aumentare le importazioni dagli USA per bilanciare un enorme gap commerciale. Ad oggi, questo è accaduto in minima parte, con maggiori vendite di mais americano e altri alimenti agricoli ma pochi macchinari, prodotti manifatturieri e petrolio.

In risposta, i dazi americani colpiscono ancora 370 miliardi di prodotti cinesi, pesando sulla già compromessa supply chain mondiale con effetti sui prezzi e l’inflazione. Cosa si saranno detti i nostri eroi? Avranno trovato un territorio comune? Sicuramente non a Taiwan.

La crisi di Taiwan (e non solo)

Sul tema Taiwan, i giornali dei due fronti riportano un bel braccio di ferro a suon di affermazioni di un leader che però, fatto strano, non trovano posto sui media dell’altro.

Secondo la stampa USA, Biden avrebbe avvertito Xi che “le tensioni nel mar cinese meridionale, le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang, nel Tibet e a Hong Kong” non sono gradite, così come “azioni unilaterali che mettano a rischio la stabilità nella regione”.

Sul fronte cinese, viene invece riportato il rimbrotto di Xi, che ha definito “sacro e inviolabile il principio di una sola Cina” e dichiarato che “cercare l’indipendenza di Taiwan significa giocare con il fuoco. Se verrà superata la linea rossa dovremo adottare misure decisive.” Ci si sta attrezzando, da entrambe le parti, per un conflitto che dalle parole potrebbe passare dalle azioni dimostrative ai fatti concreti.

Le incursioni dei caccia cinesi nello spazio d’identificazione di Taiwan hanno messo in allerta Washington che ha intensificato la vendita di armi al Paese, in osservanza del Taiwan Relations Act del 1979, che obbliga gli USA a garantire capacità di autodifesa all’isola.

Una mossa poco apprezzata da Xi, che non avrà mancato di riportare la questione durante la videochiamata. Se ci sarà un’escalation oppure le cravatte avranno fatto il loro sporco lavoro, questo lo vedremo solo più avanti.

Le Olimipiadi invernali: più di semplici giochi

Nel 2008 le Olimpiadi di Pechino avevano confermato il ruolo primario della Cina nel panorama economico e politico mondiale; quelle invernali rischiano di trasformarsi in un problema. Da un lato la denuncia degli atleti, poco entusiasti di dover vivere segregati in “bolle” parallele e subire tamponi quotidiani; dall’altro, la dichiarazione di Biden che gli USA “stanno considerando un boicottaggio diplomatico” e potrebbero quindi rifiutarsi di inviare una delegazione politica ufficiale ad accompagnare gli atleti.

A questo si aggiunge la pressione internazionale crescente circa le sorti della tennista Peng Shuai, scomparsa dopo un post in cui denunciava il vice presidente del Partito Comunista di averla stuprata. L’hashtag #whereisPengShuai, presto diventato virale, diventa quasi un pretesto per portare l’attenzione sulla sistematica censura e sulle leggi liberticide in vigore nel Paese.

Se la federazione tennis femminile si dichiara poco convinta dalla conversazione avuta con la tennista, definita “pilotata e poco spontanea”, sono numerosi gli atleti che in tutto il mondo colgono l’occasione per denunciare le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, minacciando anch’essi di boicottare le Olimpiadi del prossimo febbraio.

Da Pechino rispondono che “la politicizzazione dello sport è contro lo spirito olimpico e danneggia gli interessi di tutti gli atleti” ma forse proprio questo potrebbe dare una scossa al monolite cinese, arroccato sulle sue derive liberticide. Anche se le Olimpiadi invernali hanno un taglio “ridotto” quanto a partecipanti, l’appartenenza di gran parte degli atleti a poche nazioni tutte occidentali potrebbe avere un effetto moltiplicatore in caso di un boicottaggio concordato e allineato.

Sarebbe un messaggio forte e molto chiaro, anche perché da sempre lo sport è più potente della politica nell’influenzare le masse (si pensi ai casi nostrani). Pechino voleva un riflettore puntato addosso. Ora ce l’ha.

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