Proprio mentre nelle piazze italiane si moltiplicano i banchetti per promuovere la raccolta delle firme per varie iniziative referendarie (quelle di cui si parla maggiormente – ma non sono le uniche – sono certamente il referendum per l’eutanasia legale e i sei quesiti sulla giustizia promossi dai Radicali e dalla Lega), con la conversione in legge del Decreto Semplificazioni è arrivato il via libera alla possibilità di raccogliere le firme per i referendum e le proposte di iniziativa popolare anche online.

La novità era attesa da tempo.

Già da anni è una pratica comune in quasi tutta l’Unione europea, con alcuni Stati, ad esempio la Germania, che hanno esteso la firma digitale anche alla presentazione dei nuovi partiti alle elezioni nazionali e europee.

Lo scorso 19 maggio, Marco Gentili, co-presidente dell’associazione Luca Coscioni, in prima fila per il referendum “Eutanasia Legale”, aveva inviato una lettera al ministro Colao con la richiesta di inserire, proprio all’interno Decreto Semplificazioni, le procedure necessarie per garantire la raccolta delle firme per i referendum tramite modalità elettroniche.

Basterà lo Spid

La firma digitale è stata introdotta grazie a un emendamento presentato dal deputato Riccardo Magi, di +Europa, e prevede l’istituzione di una piattaforma digitale che acquisirà il nominativo dell’elettore, il luogo e la data di nascita e il comune nelle cui liste elettorali è iscritto (o, per i cittadini italiani residenti all’estero, la loro iscrizione nelle liste elettorali dell’AIRE).

Ai promotori della raccolta basterà caricare nella piattaforma, successivamente all’annuncio dell’iniziativa in Gazzetta Ufficiale, la proposta di referendum o il progetto di legge.

Entro due giorni, la piattaforma aprirà alla sottoscrizione da parte dei cittadini.

Le firme raccolte elettronicamente saranno poi messe a disposizione della Corte di cassazione, che ne verificherà la validità.

Sarà un apposito decreto a definire le caratteristiche tecniche, i requisiti di sicurezza e le modalità di funzionamento della piattaforma, che verosimilmente non sarà attiva prima del 2022.

Nell’attesa, grazie a una norma transitoria del Decreto Semplificazioni, dal primo luglio è già possibile raccogliere le firme degli elettori anche mediante un documento informatico accessibile tramite uno dei servizi di identità digitale.

Si parte con il referendum “Eutanasia Legale”

Un’occasione colta al volo dall’associazione Luca Coscioni, che oggi giovedì 11 agosto ha ufficialmente dato avvio alla possibilità di firmare digitalmente il quesito referendario per l’eutanasia legale.

Per chi non lo avesse già fatto ai banchetti, è ora possibile inoltrare la propria firma al link diretto, attraverso l’applicativo web predisposto per l’occasione da un ente certificatore convenzionato con l’Agenzia per l’Italia Digitale (AGID).

L’ente effettuerà l’identificazione del cittadino tramite Spid o carta d’identità elettronica, o con un servizio di identificazione remota, per poi garantire la firma elettronica qualificata del documento e la sua archiviazione.

Sarà svolta anche una verifica preventiva che il firmatario non abbia già firmato la richiesta.

La firma digitale per i referendum e le proposte di iniziativa popolare è una rivoluzione per il nostro Paese, che va così ad aggiungere un altro tassello nel faticoso cammino verso la transizione digitale e cerca di facilitare l’accesso agli istituti di democrazia diretta.

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Per la raccolta firme cartacea una strada tutta in salita

Perché, diciamolo chiaramente: fino ad oggi, la possibilità di promuovere referendum in Italia era di fatto riservata ai grandi partiti politici e ai sindacati.

Una missione impossibile, se non si dispone di una struttura organizzata su tutto il territorio nazionale, con una rete capillare di attivisti da arruolare ai banchetti per la raccolta delle firme.

Anzitutto, la legge prevede l’obbligo di far autenticare le firme su moduli cartacei da un pubblico ufficiale presente al momento della sottoscrizione, ma non garantisce ai promotori la disponibilità di quegli stessi pubblici ufficiali.

Occorre che ciascun comitato referendario, oltre a stuoli di volontari, si procuri i propri autenticatori, buonanime (tra sindaci, parlamentari, assessori, consiglieri comunali o regionali, avvocati, notai o dipendenti comunali) disposte a donare alla causa parte del loro tempo libero.

La legge non prevede nemmeno la messa a disposizione di spazi pubblici in cui poter intercettare i cittadini.

Vanno così allestiti banchetti in luoghi privati o per strada, dovendo però fare i conti con le condotte dilatorie di quei Comuni che non autorizzano l’occupazione di suolo pubblico in alcune vie o esigono anche trenta giorni di preavviso nella domanda, oppure richiedono – illegittimamente – il pagamento di marche da bollo o non rispettano i tempi per vidimare i moduli.

Infine, i promotori devono richiedere ai vari Comuni di residenza dei firmatari che in tutto, potenzialmente, sono quasi ottomila, il certificato cartaceo di iscrizione di ciascuno di essi alle liste elettorali.

Le proposte di iniziativa popolare: presentate e mai discusse

Questi problemi sono comuni anche a un altro mezzo di partecipazione democratica: l’iniziativa legislativa popolare.

Presente in Costituzione fin dal 1946, questo strumento dà ai cittadini la possibilità di sottoporre al Parlamento una proposta di legge sottoscritta da cinquantamila elettori, affinché sia discussa e votata.

A complicare il quadro, tanto da far sembrare l’iniziativa legislativa popolare, alla fine della fiera, più uno specchietto per le allodole che un vero potere dei cittadini, è il fatto che ai presentatori non sia garantito l’esame parlamentare della loro proposta.

Solo il regolamento del Senato – a seguito di una modifica di fine 2017, voluta dall’allora presidente Grasso – impone alle competenti commissioni di iniziare l’esame dei progetti di iniziativa popolare entro un mese dalla presentazione.

L’esame in commissione deve essere concluso entro tre mesi dall’assegnazione, altrimenti, decorso tale termine, il disegno di legge è iscritto d’ufficio nel calendario dei lavori dell’Assemblea.

Molto più blando è, invece, il regolamento della Camera, che si limita a riservare all’iniziativa legislativa popolare una parte del tempo disponibile all’interno del calendario dei lavori.

Non c’è però nessun obbligo, per il Parlamento, di pronunciarsi, e nessun meccanismo di priorità nella discussione rispetto alle proposte di iniziativa governativa o parlamentare.

Di fatto, la portata di questo strumento di democrazia “dal basso” è vanificata e lasciata in ostaggio dei partiti, liberi di portare avanti o affossare le proposte, a seconda che queste rispondano o meno al loro specifico tornaconto.

Tutto ciò è testimoniato dai dati degli archivi parlamentari: dal 1979 alla fine della precedente legislatura sono state presentate 262 proposte di legge di iniziativa popolare, delle quali solo tre sono state approvate.

Le restanti? Cestinate. E di queste, ben 151, oltre a non essere votate, non sono state nemmeno mai discusse.

L’Italia condannata dall’Onu

Per tornare ai referendum, c’è da dire che il 29 novembre 2019 il Comitato Diritti Umani delle Nazioni Unite ha dichiarato che, in Italia, l’esercizio effettivo del diritto dei cittadini a promuovere referendum è di fatto impedito da procedure ingiustamente restrittive e irragionevoli.

Questo pone il nostro paese in una situazione di violazione del Patto sui Diritti Civili e Politici, ratificato dall’Italia il 15 settembre 1978, nella parte in cui che prevede il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica attraverso strumenti di democrazia rappresentativa e diretta.

Il caso era stato sollevato nel 2015 dai radicali Mario Staderini e Michele De Lucia, primi firmatari di sei referendum (in materia di immigrazione, legalizzazione delle droghe, divorzio, otto per mille alla Chiesa cattolica, finanziamento pubblico dei partiti) che non andarono in porto a causa del mancato raggiungimento delle 500 mila firme necessarie.

Con la condanna dell’Italia, il Comitato dell’Onu ha riconosciuto una serie di violazioni da parte delle istituzioni, come l’assenza di autenticatori disponibili, la complessità dell’iter di vidimazione e autenticazione dei moduli, le inadempienze di molti Comuni che non consentivano di firmare e l’assenza di informazione pubblica – né da parte della Rai, né da parte delle istituzioni – sulla campagna referendaria.

L’Italia aveva tempo fino a maggio 2020 per rimediare alle violazioni riscontrate dal Comitato.

Tra le misure imposte al nostro Paese, il Parlamento avrebbe dovuto modificare la legge che regola i referendum, semplificando la procedura di raccolta delle firme.

In particolare, la legge dovrebbe assicurare ai promotori dei referendum strumenti per autenticare le firme, garantire che la raccolta firme si possa tenere negli spazi più frequentati dai cittadini e assicurare che la popolazione sia informata delle raccolte firme e delle modalità per prenderne parte.

In realtà, fino all’approvazione dell’emendamento Magi, poco era stato fatto, tanto che il Comitato ONU, in un nuovo rapporto pubblicato a marzo 2021, giudicava insufficiente la risposta dell’Italia.

Facilitare la partecipazione dei cittadini

La speranza è che questo sia solo un primo passo per rendere più facile la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.

C’è chi non vede di buon occhio gli strumenti di democrazia diretta: i detrattori ritengono rischioso demandare scelte complesse per le istituzioni e per la società (come dimenticare il voto sulla Brexit?) al popolo, magari scarsamente informato o influenzato dall’onda populista del momento.

È indubbio però che il voto popolare, con tutti i suoi difetti, continua a funzionare come uno strumento di impulso, di integrazione e di controllo nei confronti della democrazia rappresentativa.

Basti pensare al tema del fine vita: la raccolta referendaria in corso viene vista dai promotori come ultima chance di fronte a un vuoto normativo che il Parlamento, da decenni, nonostante i richiami della Corte costituzionale, non si decide a colmare.

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