In Palestina continuano le negoziazioni verso un cessate il fuoco che permetta da un lato l’accesso agli aiuti umanitari per evitare una carestia, dall’altro il rientro a casa degli ostaggi. Hamas dichiara di aver accettato il testo dell’accordo, Israele sostiene ci siano variazioni inattese da valutare. Nel frattempo impone l’evacuazione di una parte di Rafah (verso un luogo sicuro che di fatto non esiste) e torna a bombardare la città di confine, con “operazioni mirate”, ovviamente.

Violazioni delle leggi internazionali

Israele continua come non ci fosse un mondo intero a chiedere di fermare la strage, come non avesse già violato numerosi principi del diritto internazionale e umanitario. Avanti finché Hamas non sarà scomparsa dalla terra, se proprio necessario con tutti i palestinesi.

Dopo aver vietato ai giornalisti esteri di entrare a Gaza, ha disposto la chiusura di Al Jazeera, presente a Gaza dal 1996, “un’emittente eversiva” nelle parole di Netanyahu, che da anni denuncia la persecuzione dei propri inviati.

Ma la vera colpa del palinsesto è di contenere notizie atroci di cronaca, critiche contro il governo e l’esercito israeliani, oltre ai videomessaggi – trasmessi senza alcun commento – di Hamas e di altri gruppi militanti nella regione.

Qualche verità su Hamas

Nell’opinione pubblica mondiale si assiste alla solita polarizzazione da stadio, tra chi sfrutta la parola antisemitismo per zittire qualsiasi richiamo a Israele di rientrare nei ranghi del diritto e dei principi umanitari, e chi invece in qualche modo idealizza la lotta di Hamas contro l’invasore. Posizioni entrambe scorrette.

Dopo aver raccontato di Israele, vogliamo approfondire ora cos’è e cosa ha fatto la controparte, il suo cinismo nello sfruttare la situazione e nel cambiare pelle appena mutano le circostanze e le opportunità.

Hamas è una parola araba che significa zelo ma anche l’acronimo di Movimento Islamico di Resistenza (Harakat al-Muqawamah al-Islamiyyah). Viene fondata nel 1987 dall’ala palestinese della Fratellanza musulmana, sulla scia della prima intifada, scaturita dopo che un camion israeliano aveva travolto quattro palestinesi in un campo profughi.

Le origini

Inizialmente è composta da sfollati della Nakba, cioè da alcune delle 700mila persone costrette a lasciare Gaza durante la guerra del 1948, in cerca di una vendetta. La sua guida spirituale è Sheikh Ahmad Yassin, un personaggio dai toni misurati, che veste una semplice tunica bianca e con la sua sedia a rotelle sembra incarnare fisicamente la sofferenza del suo popolo. Viene assassinato da Israele nel 2004.

Il primo statuto di Hamas è un misto di citazioni del Corano, dottrina islamica e dichiarazioni nazionaliste condite di cospirazionismo antisionista. Definisce la Palesina una waqf, parola traducibile come un pegno islamico, un dono “consacrato per le future generazioni fino al giorno del giudizio”. Dopo mezzo secolo di guida laica, la causa palestinese assume i connotati di una guerra di religione.

Gli anni Novanta

Crescendo di numero e influenza, Hamas sente la necessità di definire chiaramente i propri obiettivi, di presentarsi al mondo. In risposta alla richiesta di un diplomatico europeo, rilascia il documento “Ecco per cosa combattiamo” in cui si allontana dallo statuto originario e parla di un “movimento nazionale di liberazione della Palestina, che lotta per la liberazione dei territori occupati e per il riconoscimento dei diritti legittimi dei Palestinesi”.

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Nel 1993, Yasser Arafat, al tempo leader dell’OLP, sottoscrive gli accordi di Oslo, riconosce lo Stato di Israele e rinuncia pubblicamente alla violenza. È il momento in cui Hamas si appropria della figura eroica, quale ultimo baluardo della resistenza armata, dopo ciò che per molti palestinesi è un tradimento della Causa in cambio del nulla.

In questo periodo gli attacchi terroristici sono a bassa intensità, qualche mina nel terreno e rapimenti di soldati. Dal 6 aprile 1994 con il primo attacco suicida a una fermata di bus, Hamas cambia strategia e punta sugli attentati ai civili, sul clima di insicurezza personale che ne deriva per gli israeliani. Una tattica crudele che miete migliaia di vittime e radicalizza ulteriormente i suoi adepti.

Gli anni Duemila

La seconda Intifada, a partire dal 2000, segna la trasformazione politica di Hamas, che si pone come alternativa a un apparato incapace di fermare le nuove colonizzazioni, la costruzione di muri e checkpoint. Più Fatah e Autorità Palestinese (PA) restano immobili, più cresce l’influenza di Hamas e aumentano di conseguenza gli attacchi suicidi.

Nel 2001 Hamas lancia i primi razzi dalla Striscia di Gaza e appare ovvio che, grazie agli ormai noti alleati, il suo arsenale si sta espandendo. Nel 2005 Israele fa rientrare oltre 8000 coloni dalla Striscia e la vittoria sul piano militare porta i leader di Hamas a volgere l’attenzione verso le istituzioni.

Hamas come attore politico

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Mohammed Abubakr

Dopo esser rimasta per anni fuori dalla partecipazione politica, in opposizione quasi alla stessa, nel 2006 Hamas partecipa alle elezioni politiche e, con grande sorpresa di PA, Israele, Bush e il mondo intero, le vince. La compagine che non riconosce le istituzioni create da Oslo ora ha un mandato popolare per governarle.

Nel 2005, quando sottoscrive la Dichiarazione del Cairo, Hamas sembra aver cambiato volto. Nel riconoscere l’OLP come “unico rappresentante legittimo del popolo palestinese”, aderisce di fatto al programma politico mirato alla soluzione a due Stati. Fatah però rifiuta di prender parte al nuovo governo e da fine 2006 inizia un periodo di guerriglia interna, con esecuzioni, attentati e violenze da entrambe le parti. Il 14 giugno 2007 Fatah e con esso l’Autorità Palestinese vengono espulsi da Gaza.

Tempi moderni

Hamas resta da sola ad amministrare un territorio sotto assedio di terra, cielo e mare, sottoposto a continui bombardamenti da Israele. Molti osservatori occidentali subiscono il fascino della resistenza e definiscono il potere di Hamas come “democratico”, solo qualche volta si arriva a un “autoritario moderato”.

La realtà è che si tratta di un regime autocratico, seppur regolarmente eletto, con tutte le caratteristiche della dittatura di peggior specie. Hamas smantella il sistema dei clan famigliari che controllano la Striscia utilizzando tutti i metodi esistenti, dalla diffamazione, alle torture e agli omicidi.

Gli abitanti di Gaza arrivano a temere le milizie di Hamas tanto quanto quelle israeliane; non ci sono differenze nel trattamento dei prigionieri: arresti arbitrari, detenzione illegale, violenza gratuita. Con buona pace della narrazione occidentale.

Soprattutto, Hamas non abbandona mai, pur nascondendola meglio, la lotta armata. Quando nel 2009 gli estremisti salafiti dichiarano lo Stato islamico nel sud di Gaza (proprio in quella Rafah di cui tanto si parla oggi), vengono scacciati in un violento assalto alla moschea, allo stesso modo in cui fu assassinato Yassin.

Tunnel: vita o morte

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In questo periodo Hamas sviluppa il sistema di tunnel che servono per aggirare l’assedio israeliano, da cui passano beni consumo per la popolazione ma anche sempre più sofisticati equipaggiamenti militari, per un valore stimato in circa 750 milioni di dollari l’anno. Non sufficienti a sostenere lo sviluppo economico nella Striscia, dove tra il 2007 e il 2022 il PIL pro-capite scende del 2,5% ogni anno, complice anche l’aumento della popolazione.

Hamas e Israele vivono una sorta di “pace in guerra”. I razzi diventano strumento negoziale di persuasione, con i lanci sospesi una volta ottenuto lo scopo. Israele risponde con bombardamenti, talvolta efferati, altre più limitati, in una sorta di tira e molla che non va da nessuna parte.

In effetti, Israele per anni sostiene, anche economicamente, la struttura politica di Hamas, che è necessaria sia per contenere i gruppi militanti minori, sia in una cinica logica di divide et impera: tenere i Palestinesi separati, la PA in Cisgiordania e Hamas a Gaza, è una garanzia che il loro Stato non si concretizzerà mai.

Il problema non è (solo) Hamas

In questo strano compromesso, lo Stato ebraico giustifica l’isolamento di Gaza dal mondo e i periodici attacchi contro un gruppo terroristico che “vuole la distruzione di Israele”. Allo stesso tempo, nei suoi continui rapporti politici e commerciali sembra convincersi che il proposito di annientamento si possa comprare.

Al contrario, Hamas mette in fila tutti gli anni di guerra: 2008-2009 e poi 2012, 2014, 2021… per i fedeli la guerra è un continuum, con brevi interruzioni nei combattimenti. Hamas non smette mai di architettare operazioni e attentati per rispondere alle provocazioni o negoziare con Israele. Non smette mai, insomma, di organizzare il 7 ottobre.

L’errore dell’intelligence, ma anche dei politici israeliani, sta forse nell’aver dimenticato la vera natura di Hamas, sottovalutato le sue sempre più frequenti minacce. Israele va avanti come se niente fosse con i nuovi insediamenti, con la sopraffazione, a costo di sacrificare i suoi stessi figli.

Aprire gli occhi

Capire la reale natura di Hamas è fondamentale per tentare una soluzione alla crisi che sta già contagiando altri Paesi del quadrante mediorientale. E considerarlo un gruppo monolitico è riduttivo: ci sono diverse correnti al suo interno, tra chi si considera un nazionalista moderato con propensione islamista, e chi è radicalizzato e fondamentalista nella sua unica priorità: distruggere Israele.

Hamas è in effetti il prodotto delle condizioni disumane in cui vive la popolazione, tra brutale occupazione e assedio. Il più grande malinteso alla base della guerra riguarda proprio la sciocca idea che, una volta annientata Hamas, una volta uccisi tutti i suoi leader, i palestinesi non avrebbero più obiezioni per la mancanza di diritti, una vita da reclusi, le discriminazioni, la fame e la sete.

Una dura realtà

La dura realtà che i governi occidentali si ostinano a non voler vedere è che, se anche Hamas scomparisse oggi, non cambierebbe niente: i Palestinesi in una gabbia, Israele a deciderne vita o morte. La soluzione a due Stati è una utopia a cui l’Occidente si aggrappa per sentirsi meno inerme, meno complice di un genocidio.

Significherebbe riuscire a integrare Hamas nel quadro politico della Palestina, accanto a Fatah e PA. Nessun tentativo di sanare le divisioni ha avuto fortuna, neanche il summit dello scorso marzo. L’unità politica dei palestinesi appare molto lontana.

Se ci fosse una strada verso il riconoscimento di uno Stato palestinese – per chi scrive solo un’altra triste illusione – il pragmatismo di Hamas avrebbe di certo il sopravvento sulla jihad. Ma con la devastazione visibile su Gaza, con il territorio ridotto a una serie di crateri, macerie e fosse comuni, anche solo sperare appare fuori luogo. Una mera distrazione da quel che accade veramente.

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Youssef Elbelghiti

Una tregua è (im)possibile

La dura realtà è che Israele, mentre il mondo guarda, ha rifiutato l’accordo di tregua già accettato da Hamas, è entrato a Rafah e preso il controllo del lato palestinese del valico, unica apertura rimasta per gli aiuti umanitari. Niente sembra poterlo fermare.

L’unica speranza viene dagli USA, in una presa di posizione reale, non solo minacciata a parole. A differenza di quando scrivemmo l’articolo precedente, però, l’ondata di proteste nei campus universitari sta portando l’attenzione del Presidente uscente su un elettorato giovane a cui deve in larga parte l’elezione e a cui non sembra poter rinunciare in vista di novembre.

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