I punti critici sui quali si è consumato lo scontro erano – oltra al ricorso al Mes – l’economia, la giustizia, l’istruzione. E i supercommissariato quasi plenipotenziario all’emergenza Covid. Per Renzi dovevano essere principalmente quelli i temi della discontinuità con il Governo Conte-bis. Materie gestite, secondo lui, in modo irrimediabilmente fallimentare. Il resto contava fino ad un certo punto, anche perché nel giro delle nomine, sarebbe stato tutto una conseguenza.

Peccato che si trattasse praticamente dei cardini dell’esecutivo dimissionario e soprattutto dei cardini dell’identità di Governo del Movimento 5 Stelle. «Volevano perfino decidere i ministri degli altri», è stato commentato da esponenti grillini, dopo le fallite consultazioni, facendo intendere che Italia Viva poteva anche accettare che le caselle toccassero ancora a loro, ma che Gualtieri, Bonafede, Azzolina e soprattutto Arcuri dovevano sparire dalla scena. Condizione giudicata alla fine inaccettabile. Così Roberto Fico, che incarnava l’ultima speranza di un governo di intesa politica, mantenendo la stessa maggioranza, ha gettato la spugna. Peccato, perché quando un Paese non riesce a farsi guidare dai rappresentanti dell’elettorato, vuol dire che la politica nel suo insieme ha fallito.

Un fallimento all’interno del quale chi ha avuto più lucidità e scaltrezza è riuscito perlomeno a fare la propria di politica, mentre c’è chi ha cercato di parare i colpi e perfino chi è rimasto a guardare, inerte. Quest’ultimo ruolo – un poco deprimente – è toccato evidentemente al PD, praticamente non pervenuto in queste giornate di fuoco. Quel che è accaduto poi lo sappiamo: la convocazione al Quirinale di Mario Draghi.

Cominciamo col dire che è chiaro che non si tratta di un’idea dell’ultimo momento. Draghi era già stato sondato dal Capo dello Stato e aveva già dato una disponibilità di massima a entrare in scena in caso di fallimento di qualsiasi tentativo di governo politico. Questo vuol dire anche che Draghi ha già pronta una squadra o perlomeno una rosa di possibili ministri. «Di alto profilo», secondo le parole di Mattarella, cioè fuori dalla politica o almeno con passaggi significativi in ruoli istituzionali o tecnici, probabilmente già resi noti al Presidente della Repubblica.

Ma la politica, se abbandona il terreno del potere esecutivo, rimane pur sempre padrona di quello legislativo e dunque, per quanto si possa trattare di “Governo del Presidente”, dovrà essere sostenuto da una maggioranza parlamentare che ne condivida le linee di programma. E stando a quanto i partiti hanno espresso fino ad ora, questo parrebbe essere un grosso problema.

Cominciamo dal primo partito per rappresentanza, il Movimento 5 Stelle. Mario Draghi rappresenta praticamente l’esatto contrario di tutti i principi identitari del Movimento. Dall’Europa delle banche ai famigerati poteri forti. Passiamo poi alla Lega: teoricamente il discoro non cambia, anzi, il contrasto sarebbe quasi peggiore, visto il posizionamento dei leghisti al Parlamento Europeo. Altrettanto si dovrebbe dire di Fratelli d’Italia, considerando i principi sovranisti.

Nel campo favorevole, giocano sicuramente il PD, Forza Italia e Italia Viva, che però insieme non rappresenterebbero la maggioranza. Ma la politica, si sa, è una casa con le porte girevoli, dove si entra e si esce velocemente anche dalle situazioni più improbabili. Il Movimento 5 Stelle ha dichiarato per voce di Fraccaro la sua indisponibilità a dare la fiducia, ma la domanda è: quando tra qualche giorno fosse il momento di dire sì o no a Draghi, il Movimento 5 Stelle esisterà ancora?

Figure ormai del tutto istituzionalizzate, entrate a pieno titolo in quella scatoletta di tonno che Beppe Grillo voleva aprire, come Di Maio, Patuanelli e D’Incà, seguirebbero sulle barricate un Alessandro Di Battista o una Barbara Lezzi? Soprattutto ben sapendo che in caso di ricorso a elezioni anticipate, due terzi dei parlamentari 5Stelle dovrebbero uscire dai palazzi.

Malgrado le posizioni apparentemente inconciliabili, le prospettive potrebbero essere invece molto meno difficili per la Destra. La Lega si indentifica su ogni decisione con il suo Capitano Salvini che, oltre a una naturale propensione a una certa spavalderia politica che gli consente di cambiare agilmente linea, oltre ancora a una volontà di contare più possibile, pare che già da tempo stia penando a riposizionare il suo partito su frequenze meno antieuropee.

Curioso invece quel che potrebbe accadere dentro Fratelli d’Italia, da cui per il momento non arrivano ravvedimenti sulla linea sovranista, ma che deve fare i conti con une elettorato sorprendente, se è vero che – come riferisce la sondaggista Alessandra Ghisleri – per metà vedrebbe di buon occhio un appoggio al Governo Draghi. Forse un uomo contiguo agli ambienti del grande capitalismo e della finanza rappresenta idealmente il riscatto da un governo Conte visto come pericolosamente “di sinistra”.

Poco da dire sui veri vincitori: Italia Viva e Forza Italia. Anzi, più la seconda, a ben vedere. Se Renzi può infatti attribuirsi il merito di aver fatto saltare il banco, scoperchiando l’inadeguatezza del Conte-bis nelle gestione dei prossimi finanziamenti europei, va anche detto che la sua manovra spericolatissima continua ad essere letta istintivamente come inopportuna nei tempi e difficilmente gli porterà un sensibile aumento di consensi. Senza contare che chi si è dimostrato così abile nel fare lo sgambetto una volta, facilmente viene considerato capace di farlo ancora.

Per Forza Italia, invece, al di là della dichiarazioni unitarie del centrodestra, un appoggio a Draghi sarebbe l’occasione di rientrare in gioco nella gestione del paese e di smarcarsi dall’ingombro delle politiche sovraniste degli alleati. Tutto senza aver toccato palla. Va ricordato che la nomina di Draghi al vertice della BCE fu fortissimamente voluta proprio da Berlusconi, nel 2011, chiedendo un sacrifico a Lorenzo Bini Smaghi che sedeva nel board della Banca Centrale.

Alla fine di tutto questo, c’è però un aspetto determinante. Fin qui si è parlato di politica, in emergenza, in affanno, ma pur sempre di politica. La questione è che c’è un paese stremato che vive alla giornata e rispetto ai “Palazzi” ha ormai la bava alla bocca. È con quel paese che Draghi deve fare i conti da subito. Perché i partiti ormai sono solo dei circoli dove si esercitano piccoli poteri, rincorrendo più o meno piccoli consensi e anche la presunta antipolitica ha dimostrato di non sfuggire a questa condizione. Draghi deve essere politica e antipolitica allo stesso tempo, dimostrando che la competenza è l’ultima carta di questo gioco che non diverte più nessuno.