Partiamo dai numeri, altrimenti rischiamo di far solo chiacchiere. Il Governo non ha la maggioranza al Senato e porta a casa la fiducia, grazie all’astensione dei senatori di Italia Viva, cioè del partito che ha aperto la crisi. Non solo. Il Governo “controlla”  13 commissioni del Senato su 28. Infine Italia Viva, che ora non è più in maggioranza, ha la presidenza di quattro commissioni permanenti, tra Camera e Senato, strumento non di poco conto nel condizionare l’attività del Parlamento. Strategicamente parlando, quella di Renzi è stata una manovra geniale. Il suo partito ha molto più potere decisionale adesso, di quando aveva due ministeri e mezzo. Ha rischiato tutto e ha ottenuto molto. Il colpo grosso sarebbe consistito nel restare in maggioranza e ottenere  più ruolo: il ministero degli Esteri, mettendo così un piede nel fondamentale ruolo dei rapporti internazionali per i prossimi due anni e  umiliando politicamente il Movimento 5 Stelle, oppure il vagheggiato nuovo “superministero” per la gestione dei Recovery Funds. Entrambe le soluzioni sarebbero state però bocconi troppo amari per Conte che ne sarebbe uscito malissimo, in termini di credibilità, prestigio e ruolo.

Quel che ne è uscito dalla sfida, ragionando in termini di dialettica politica, è però perfino più vantaggioso per Renzi, perché gli spalanca ampi spazi di azione. Ma mentre i ruoli gli avrebbero regalato anche delle garanzie, l’attuale situazione gli impone inevitabilmente un attivismo faticoso e pericoloso. Per usare la posizione di influenza al Senato e nelle Commissioni serve un partito efficiente, compatto, aggressivo. Insomma una macchina da guerra guidata da soldati convinti. E la domanda a questo punto sorge spontanea: Italia Viva lo è?

Proprio in Senato siede uno degli esponenti del partito più equilibrati: il milanese Eugenio Comincini. Uno che al progetto renziano, per intenderci, ha aderito fin dal primo minuto. Bene, qualche ora dopo il voto della fiducia al Senato, Comincini scriveva così sulla sua pagina Facebook: “…L’intervento di Matteo mi è piaciuto molto per la visione che è riuscito anche questa volta a esprimere: chi fa politica ha da imparare. Ma non ho potuto fare a meno di pensare, alla luce dell’obiettivo che mi ero dato di trovare soluzioni che riannodassero i nodi di questa storia, cosa avrà provato Conte nel sentirsi fare la lezione pubblica su come deve fare meglio il premier. Potrà anche avere ragione, ma è difficile ricucire con questi toni. E i toni e la modalità con i quali ci si pone di fronte ai terzi fanno la differenza…”. Insomma, non c’è propriamente lo slancio dell’assalto, del coltello tra i denti, anzi… si percepisce quasi un disagio, istituzionale e politico, ancora più evidente, quando aggiunge: “…la mia storia di amministratore, lunga e invidiabile, mi ha insegnato cosa sia la fatica della mediazione. Ed è una fatica che voglio continuare a fare. Proprio per permettere al Governo di operare meglio di quanto abbia fatto sino ad oggi. Lo stile che mi caratterizza è noto e non posso camminarci sopra…”. Va detto che in politica, come su un campo di battaglia, il coraggio cresce con l’inebriante odore del sangue del nemico, ma è proprio qui che sta il punto, nel rischio che l’unico a percepire Conte come nemico finisca per essere Renzi.

Fondamentale ora è la tempistica. Dalla strategia si deve passare subito all’azione, perché più tempo passa e più spazio si lascia alle riflessioni e ai dubbi. E Renzi lo sa, tanto che proverà a individuare subito bersagli politici, ma dovrebbe saperlo anche Conte, che a sua volta potrebbe appositamente cercare di diluire la materia, lanciando magari messaggi di pace, anche se solo strumentali. Un maturo e sempre acuto osservatore come  Marco Taradash scrive che Italia Viva dovrebbe “ristrutturarsi come partito vero e Renzi deve lasciarne il comando a chi è più capace di organizzarlo, con procedure democratiche e con maggiore credibilità esterna.”  Il problema è che Taradash resta un meraviglioso sognatore radicale, ma soprattutto che Renzi resta Renzi.