I passi riecheggiano rifiniti nell’assordante silenzio dell’androne della scuola. Un tablet scanner, con voce metallica, mi intima di mettere la mascherina. Che ho già. Me lo ripete tre volte finché, quando oramai l’ho tirata fin sugli occhi, mi comunica che posso finalmente andare a lavorare.

Mesi di tempo, di attesa, di discussione mentre il sole di luglio e agosto baciava i vacanzieri al mare. Ricordo dichiarazioni solenni, imperative, categoriche: i ragazzi, gli studenti, non sarebbero stati ancora una volta, di nuovo, i più penalizzati. Risorse tecniche, personale aggiuntivo e denaro sarebbero piovuti sulla scuola più di quando Nergal, il dio sumero della tempesta, aprì le cateratte del cielo per sommergere col diluvio l’umanità.

E, invece, i corridoi sono vuoti.

Qualche chiacchiera stizzita, disillusa, arrabbiata rimbomba dall’aula docenti, il mugugno dei quali è direttamente proporzionale all’impotenza nell’indirizzare le scelte non del Governo, ma del Ministero dell’Istruzione o anche solo del proprio istituto. Soffrono dello stesso problema dei loro alunni: se scioperano non se ne accorge nessuno; se i ragazzi chiedono un cambiamento poco importa, perché tanto non votano e comunque sono inaffidabili.

Entro nell’aula vuota, accendo il pc cercando di comunicare su una delle piattaforme. Ma oggi il segnale non c’è (ieri nemmeno, domani chissà) e passo così il pomeriggio in un continuo «non vi sento», «mi si sente?», «la mia telecamera non funziona», «profe, non la vediamo».

Di alcuni alunni non ho più notizie da settimane perché, a casa, non hanno una connessione. Negli altri, si percepisce netta la noia, profonda, per lezioni che senza interazione reale non accendono alcun coinvolgimento emotivo, e ancor di più la frustrazione per il tempo perso, buttato nella ripetizione infinita di «può ripetere, la sentiamo a scatti», mentre la polvere si adagia piano sullo schermo.

Chiamo un’alunna per verificare se ha azzeccato l’esercizio del dativo di possesso: non sa rispondere finché si percepisce la vibrazione del suo cellulare con la risposta giusta inviatale da qualche sua compagna impietosita. Giubilo. Ritorno alla classe e in sottofondo sento prepotente il rombo del furgone dell’A-Team perché la ragazzina si è dimenticata di chiudere il microfono.

Mentre attendo che silenzi la tv o chiuda il segnale audio, mi ritrovo sconsolato a fissare un reticolato di telecamere spente e di avatar con immagini di Conte con la mascherina, gattini con le lacrime, Aristogatti, semplici iniziali, foto profilo selfie di quindicenni che se fossi loro padre passerei del lardo sull’obiettivo per sfocare l’immagine, che c’è brutta gente in giro.

Salta definitivamente la connessione. Ramingo per la scuola, alla terza aula (e pc) riesco a collegarmi e finalmente, mentre ancora non mi sono palesato, risuona la vita. Ragazzi che scherzano, si tolgono l’audio l’uno con l’altro. Appare una chitarra. Parlano dei morosetti che un giorno, forse, avranno (DPCM permettendo). Ridono. Aspetto ancora un attimo per non dimenticarmi il suono di quella risata.

Riesco infine a fare 20 minuti di lezione. Preannuncio l’argomento della prossima sessione, vorrei salutare ma salta ancora la linea e rimango davanti a uno schermo “frizzato”, lui tanto quanto me. Suona la campanella, quasi l’eco di un tempo lontano. Sbircio, forse il tempo è davvero tornato indietro e tutto questo è solo un reality distopico di un emulatore di Kafka. Ma il vero pilastro della scuola, ovvero la macchina del caffè, è deserto.

Questa è la scuola ed è una fotografia precisa del nostro Paese: i proclami, gli investimenti e le strategie hanno prodotto banchi con le ruote ora come ora inutili, lasciato solo chi non ha i mezzi per una connessione o la caparbietà di fissare uno schermo per ore e ore, sprecato mesi e mesi perché i ragazzi sono il nostro futuro e la nostra priorità però intanto ci sono le vacanze, c’è da prenotare l’ombrellone e in fondo basta smettere con le colazioni al plutonio.

Prima di chiudere la mia lunga giornata da data entry, cerco di capire se sono l’unico a percepire che l’andrà tutto bene è rimasto sbiadito e lacerato sui balconi.

«Durante la lezione un’alunna mi ha detto “questo non è diritto allo studio”. Mi è venuto da piangere» afferma una collega in rete. No, non sono solo.