Un pensiero che parte dalla voce dei giovani. Alcune domande che suonano forte in questo momento di simile ritorno alla normalità. Il ricordo della frase “andrà tutto bene” e gli interrogativi: è andato tutto bene? Dovrà ancora andar tutto bene? Quali emozioni racchiudevano quelle parole? Quanta paura e quanta speranza?

E proprio una grande speranza rispecchiava quel messaggio, soprattutto quando tutto ciò che ci circondava ci stava improvvisamente sorprendendo e disorientando. La speranza che ci fosse un tempo entro il quale qualcosa sarebbe cambiato e terminato, la speranza di un ritorno alla nostra routine, la speranza che ci permettesse di accettare le nostre incertezze e di coltivare il coraggio.

Così, proprio a pochi giorni dall’inizio della scuola, si legge quanto sia importante trasmettere ai ragazzi messaggi positivi, ricchi di speranze e scaricati di paure. Gli stessi interlocutori con cui abbiamo condiviso il senso di responsabilità collettiva, il valore della libertà e l’essenza delle relazioni interpersonali. Ma ricordiamoci che non può esistere speranza senza paura. Perché sperare significa muoversi in una cornice di possibilità, di nuove scoperte, di possibili cambiamenti. Ed essi spesso spaventano tutti noi, ancor di più in questo periodo.

Sperare inoltre non credo possa essere qualcosa che riguardi soltanto noi, ma invece mi sembra possa essere un qualcosa di condiviso, perché solitamente abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a sperare. La vita scolastica prima e professionale dopo, i rapporti con le persone a noi care, l’immagine che abbiamo di noi stessi. È un percorso, che viene alimentato dalle esperienze di ieri e dalle speranze del domani. I messaggi da parte delle figure genitoriali e dei nostri principali punti di riferimento sono quelli che ci fanno capire quanto possiamo effettivamente sperare in qualcosa, quanto il nostro desiderio possa essere realmente concretizzato. Penso difatti che parole vuote di speranza possano creare dialoghi non evolutivi.

È possibile allora investire in un lavoro, in un amore, in se stessi senza sperare? Quanto la speranza è il riflesso delle nostre aspettative? Quanto la motivazione che ci spinge ad agire è mossa dalla nostre speranze?

Queste domande ci permettono di distinguere evidentemente la speranza dalle aspettative e ancora dalla motivazione. Perché la speranza è un pensiero che muove all’azione e Charles R. Snyder, nella sua “Hope Theory”, la definisce come processo cognitivo, emotivo e comportamentale, che contiene al suo interno non soltanto il desiderio, ma anche il perseguimento dello stesso. Diventa essa stessa ponte per il senso di autoefficacia. Così sperare in qualcosa diventa sinonimo di sperare in se stessi.

È pertanto qualcosa di profondamente realistico e orientato alla realtà. Presuppone il reale, non la fuga dallo stesso. Così si distingue anche dall’immaginazione, dal fantasticare, da quel pensare oltre ai limiti che può trasformarsi nella pericolosa illusione. Nella speranza si vola creativamente, ma con i piedi per terra.

E tutto ciò che ci contorna può essere fonte di nuove speranze, soprattutto quando esse faticano a rimanere vive in noi. Così, gli sguardi dei nostri professori, le parole dei nostri genitori, la presenza dei nostri amici possono essere le sorgenti da cui acciuffare positività. E quando sembra difficile far persistere la speranza senza un puntuale riscontro positivo, credo sia importante fare noi stessi portatori di speranze, insegnare a muoversi verso uno scopo, piuttosto che a restare ristretti. Significa aiutare noi stessi e l’altro, crederci, anche quando è faticosamente necessario rialzarsi.

Allora l’invito che voglio fare è di tenere lo sguardo di chi vive, costruendosi, con l’altro.