Il suo ultimo libro, L’invenzione di noi due, in libreria dal 26 maggio, è già giunto alla terza edizione. L’architetto che lavorava in Comune, poi diventato disegnatore e fumettista, esordiente quattro anni fa come scrittore, pare non avere fretta durante l’intervista telefonica. Prima di arrivare al romanzo uscito da poche settimane con Einaudi, è inevitabile partire dall’inizio, da quel Notti in bianco, baci a colazione che nel 2016 con la stessa casa editrice gli ha aperto una nuova modalità di raccontare, questa volta con le parole.

Matteo Bussola da allora ha iniziato un percorso inatteso: aveva già cambiato prospettiva lasciando la scrivania di un ufficio tecnico per passare a quella di disegnatore per la Sergio Bonelli Editore, ma dal suo primo successo di narrativa ha percorso tantissime tratte ferroviarie, per presentare i suoi libri in giro per l’Italia e per andare a Milano a condurre con Federico Taddia a Radio 24 “I padrieterni”, programma dedicato all’essere papà oggi.

La pandemia ha rallentato la corsa, ma subito sono subentrate le dirette in streaming, tra connessioni che saltano, telefoni che non prendono, live a volte tecnicamente difficili ma sempre coinvolgenti e seguitissime. E poi ci sono i social, dove tutto ha avuto inizio. Il suo profilo Facebook è seguito da quasi 130mila follower, che da anni leggono le sue riflessioni sull’attualità, la politica, ma anche sulla sua vita personale.

In questi anni non hai cambiato modo di stare sui social, racconti molto di te e della tua vita. Come vivi i conflitti con chi la pensa diversamente da te?

«Sono soprattutto i temi cosiddetti sensibili a smuovere le opinioni diverse dalle mie, lo metto già in conto quando scrivo un post. Facebook non è un mondo a parte, è normale che l’identità politica del Paese si manifesti pure lì. Però più in generale mi interessa quella scrittura. Mi ha anche portato fortuna, perché grazie all’interessamento di Giulio Mozzi, consulente editoriale, che leggeva i miei post e ha cominciato a condividerli, ho allargato il bacino di lettori, che all’inizio era fatto prevalentemente di appassionati di fumetto. E da lì poi è arrivata la proposta di fare dei miei contenuti un libro.

Ma oltre alla gratitudine per quanto è successo, dei social mi interessa molto che attraverso la condivisione di una mia esperienza io possa poi entrare in contatto con quella degli altri. Si costruiscono relazioni tra vite diverse, e poi c’è il privilegio di avere un riscontro quasi istantaneo da parte dei miei lettori. Cosa che mi stimola anche a non farmi influenzare: avrei potuto ad esempio scrivere il sequel del primo libro, i lettori c’erano già, anch’essi genitori alle prese con la crescita dei loro figli. Ma ho evitato perché sarei morto lì e oggi scrivere delle mie figlie sarebbe un’interferenza nelle loro vite. E poi scrivere di un solo argomento mi starebbe stretto.»

Al primo libro sono seguiti Sono Puri i loro sogni. Lettera a noi genitori sulla scuola (2017), La vita fino a te (2018) e ora L’invenzione di noi due, che è il tuo primo romanzo. Cosa ti ha spinto verso questo genere letterario?

L’ultimo libro di Matteo Bussola è giunto alla terza ristampa

«Ho seguito un input arrivato dalla mia editor, Rosella Postorino, e da Severino Cesari, direttore editoriale della collana Stile Libero. Einaudi mi aveva chiesto infatti di scrivere un altro libro, dopo il successo del primo. Non avendo subito un’idea, mandai una cartella con una cinquantina di racconti, sperando che lì ci fosse qualche spunto. E infatti entrambi, Rosella e Severino, ma in seguito anche Giulio Mozzi, mi indicarono in “Chi sei?” l’idea da sviluppare. La storia di due ragazzi che hanno una relazione epistolare sui banchi di scuola è diventata quindi la vicenda di Milo e Nadia (protagonisti del romanzo, alle prese con un matrimonio da salvare, ndr).

Non ho cominciato a scrivere finché questi due personaggi non mi hanno detto chi erano. Ho atteso tre anni. Quando loro due mi hanno mostrato persino il finale ho iniziato la stesura.»

Hai sempre bisogno dell’elemento autobiografico come innesco creativo?

«In questi anni ho capito che questo è un falso problema, perché tutti gli scrittori parlano comunque di sé e della propria esperienza in modo più o meno esplicito. Un giorno Maurizio Maggiani mi disse che “il minestrone lo fai sempre con quello che trovi in casa”. Attingiamo al vissuto per dare verità alla nostra scrittura. Però con il terzo libro ho anche capito di riuscire a raccontare meglio attraverso la finzione. Se mi tolgo di mezzo, vado più a fondo nel racconto.»

Da disegnatore quanto contano le immagini nella tua scrittura?

«Fino a poco tempo fa iniziavo le presentazioni dei libri dicendo che non ero uno scrittore, poi ho smesso perché rischiava di sembrare un vezzo. Però c’è di vero che sono innanzitutto un disegnatore e come fumettista cerco l’equilibrio tra parole e immagini. E questa tecnica la ritrovo nella mia scrittura. Affido alle parole il compito di costruire visivamente, ma spesso ragiono partendo proprio dalle immagini. Che si tratti di una fisionomia o di un concetto più astratto, come una relazione tra i personaggi.»

Hai da poco firmato il contratto per la trasposizione de L’invenzione di noi due in film. Sei curioso di vedere come il romanzo sarà tradotto cinematograficamente?

«Sarà un altro linguaggio, però ho la fortuna che la mia richiesta di essere coinvolto nella sceneggiatura sia stata accolta. Anzi, mi hanno detto proprio di occuparmene. Cosa che mi preoccupa e mi fa felice, perché tengo tanto a questa storia. E vicino a me c’è la mia compagna, Paola Barbato, scrittrice di esperienza che ha già lavorato per il cinema. Non nego che mi è preso pure il panico. Ma in questi anni ho imparato ad accogliere le cose. Vediamo cosa succederà.»

Sul piano tecnico, qual è il tuo metodo di lavoro?

«Io e mia moglie contraddiciamo l’idea romantica dello scrittore isolato, che lavora in piena quiete accanto a un ruscello. In realtà per me la parte della scrittura è quella più semplice, una volta che ho trovato l’innesco. Io ho orari da panettiere, Paola scrive di notte. Una volta avviato il lavoro, riesco a stare nel totale casino, con figlie in monopattino, o che si arrampicano sulle librerie e ti chiedono un panino. La parte difficile è l’attesa che ti venga a trovare lo spunto buono o il metabolizzare l’idea, lo stare davanti a un monitor bianco con questa fiducia visionaria, aspettare che qualcosa accada. Se hai tempo sufficiente, di solito qualcosa succede.»

Stai già lavorando a nuovi progetti?

«Ho firmato da poco con Einaudi per un nuovo libro, che sarà pubblicato il prossimo anno più o meno in questo periodo. Prima di quello ne uscirà un altro, di cui curerò sia la scrittura sia le immagini, mettendo così insieme le due anime, e il tema saranno le discriminazioni di genere (la casa editrice non è ancora nota, ndr). Da padre di tre figlie l’argomento mi sta particolarmente a cuore. E poi sto tentando di fare anche un fumetto con Paola. Sempre se resto vivo.»

Il tema dell’amore è sempre presente nei tuoi libri. La relazione uomo-donna, che è il fulcro dell’ultimo romanzo, quanto è vicina al racconto che si fa spesso dei due sessi, ovvero che gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere? È una polarizzazione reale oppure c’è di più?

«Scrivo di amore perché mi interessa innanzitutto la relazione con l’altro da sé. La nostra stessa identità si costruisce con le relazioni. Credo che la dualità Marte-Venere sia frutto di un fraintendimento, perché il maschile e il femminile non sono due pianeti diversi, bensì due polarità che appartengono a tutti, ne siamo abitati. È importante farle emergere entrambe e metterle in dialogo dentro e fuori noi stessi.»

La crisi che stiamo vivendo rischia di abbattersi pesantemente sulle donne, alle prese con il carico del lavoro e quello familiare. Molte rischiano di non trovare più un’occupazione e di restare confinate nel loro ruolo di cura. Pensi che la collaborazione familiare sia un punto indispensabile per cominciare a capirsi tra uomini e donne?

«Ancora oggi si dà per scontato che l’accudimento familiare abbia a che fare con le donne. Se un padre è più presente lo si chiama “mammo” e si riconduce l’amorevolezza e la cura al materno. Se una donna punta alla carriera si dice che ha “le palle”, perché l’ambizione si pensa sia di genere maschile. Non è questione di concedere delle opportunità alle donne, ma di darle a noi stessi. Come uomo rivendico la possibilità di essere un padre, di curare la relazione, i figli, la mia compagna, di vivere una dimensione dalla quale non devo essere estromesso. E così vale per le donne.

Dovremmo considerare da cosa gli uomini sono tagliati fuori in questo modello imperante di maschio sempre fuori casa, alla ricerca del reddito. Il linguaggio è il modo migliore per valutare le distanze implicite che viviamo nella società e nel modello familiare. La parola “matrimonio”, su cui si fonda una famiglia, ha per radice mater, mentre ai padri resta il “patrimonio”, ciò che ci rende utili ma distanti. Concetti che radicano nel diritto romano, ma siamo ancora quella roba lì.»