Blonde è stato senza ombra di dubbio uno dei film più controversi del 2022. Sin dalla sua presentazione in concorso alla scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, l’ultima fatica del regista Andrew Dominik ha spaccato in due la critica per poi, una volta approdata su Netflix, fomentare il dibattito sui social. Essenzialmente Blonde è stato accusato da parte di molti spettatori di essere un’opera maschilista, pro-life e che ha oggettificato la vita di Marilyn Monroe per tracciare una pornografia del dolore lunga quasi tre ore.

Il finale del film deve essere contenuto nell’inizio

Ma siamo sicuri che sia così? Proviamo a spostare la discussione oltre gli schieramenti, oltre il mero “mi piace e non mi piace”, per dare credito alle immagini, al loro significato, in poche parole al cinema.

Partiamo dall’inizio. Il film si apre ritraendo Marilyn Monroe mentre sta girando la famosa scena di Quando la moglie è in vacanza. Sul set della pellicola diretta da Billy Wilder la scena in questione – ovvero dove la gonna della protagonista si alza mossa dal vento – è stata in realtà realizzata in studio a causa del trambusto provocato dalla folla accorsa per assistere all’evento. Cosa significa iniziare con quest’immagine? Rendere omaggio alla diva per eccellenza hollywoodiana tramite uno dei suoi ruoli più famosi?

Se Blonde fosse un film banale diretto da un regista banale forse sarebbe così, ma Andrew Dominik nel corso della sua carriera ha dimostrato più volte di fregarsene delle aspettative del pubblico e perciò quella scena di apertura delinea sin da subito un’idea precisa di cinema e di mondo o in questo di incubo.

Piacere scopofilico

La critica cinematografica Laura Mulvey in Piacere visivo e cinema narrativo – saggio fondamentale per la Feminist Film Theory – ha analizzato in chiave psicoanalitica il cinema classico americano asserendo che la composizione dell’immagine è costruita per il piacere dello spettatore maschile. Lo sguardo della macchina da presa, quello diegetico dei personaggi e dello spettatore nel cinema classico convergono verso il punto di vista del dominatore che fa del voyeurismo una virtù.

Nel profilmico, quindi, la donna spettatrice subisce una disparità esperienziale che definisce ancora una volta l’apparato patriarcale, seppur inconscio, del sistema produttivo cinematografico. Il cinema entra nella fonte di piacere freudiana denominata “scopofilia”, ovvero dove il guardare stesso dà godimento implicando una separazione dell’identità erotica del soggetto dall’oggetto dello schermo. Una teoria in sintesi che Laura Mulvey sviluppa proprio grazie alla scena in questione di Quando la moglie è in vacanza, che in Blonde è fotografata in bianco e nero e nel formato 1,37:1, come se fosse una istantanea di un’epoca. La dichiarazione d’intenti è quella di indagare la matrice tossica di questa rappresentazione attraverso la vita romanzata di Marilyn Monroe – il film è tratto dall’omonimo libro di Joyce Carol Oates – e di chi ha reso la sua immagine puro piacere visivo.

Blonde mette in difficoltà chi guarda, crea scompiglio nella ferocia con cui Marilyn Monroe è stata oggettificata dall’industria rendendo anche noi spettatori responsabili, che prima di tutti e tutto l’hanno resa una bombshell da copertina di playboy.

Guardare è uccidere

Il film di Dominik punta il dito contro il mondo fallocentrico hollywoodiano, tutto stelle e tappeti rossi, che ha divorato il privato di Norma Jeane (il vero nome di Marilyn Monroe) rubandole anche il desiderio di essere madre per non compromettere la sua carriera: l’attrice quando rimase incinta doveva iniziare le riprese del film Gli uomini preferiscono le bionde e fu costretta ad abortire. Il mostrare ripetutamente le vessazioni che Marilyn Monroe ha subito durante la sua breve vita è perciò un atto testimoniale contro lo sguardo ossessivo proprio perché portato alle sue estreme conseguenze, un’iperbole, una presa di posizione sulla politica delle immagini.

Il disgusto che provoca Blonde è cercato anche nei momenti di iato dove è Norma Jeane ad essere protagonista, perché la sensazione è quella di assistere al simulacro di luce di una stella morta, il cui destino è già segnato proprio perché tuttora ammiriamo la sua immagine, sentendoci a disagio per quello che è accaduto.

In quanto spettatori dobbiamo mettere in discussione il nostro sguardo e interrogarci sulle questioni che il film solleva: quella di una vita che è diventata celluloide per essere proiettata al cinema, diventando il simbolo del sacrificio per la soddisfazione dell’occhio maschile.

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