Incontrai per un’intervista Roberto Puliero qualche mese fa. Era tarda primavera, una mattina di giorno feriale, in un bar sotto casa sua, all’ora in cui le colazioni finiscono e si può conversare con tranquillità. Non lo conoscevo di persona e un misto di trepidazione e soggezione mi pervadeva mentre lo attendevo fuori dal locale. Quando lo vidi avvicinarsi con passo incerto e poi ancora quando ci stringemmo la mano, prima di accomodarci, fu come incontrare un amico di vecchia data. Fummo subito a nostro agio: su di lui non dubitavo, ma quanto a me… Sarà per quel capello lungo sbarazzino, sarà per la felpa gialloblù indosso e quel suo innato gusto nel comunicare, che cominciammo subito a conversare, più lui in verità. Stentando a limitare gli argomenti, a chiudere la conversazione dentro ad un canovaccio di intervista che mi ero preparato, dopo qualche minuto abbandonai ogni intendimento preordinato e fu la scelta più giusta che potessi fare. Puliero in pochi attimi mi portò nel suo mondo, fatto di creatività, spasmodica ricerca, esuberanze, malinconie. In una parola sola: passione. Il teatro, i ragazzi, il calcio, la città, stentavo a stare dietro ai pensieri che condivideva. Più parlava, più avrei voluto interromperlo per approfondire, chiedere, ma mi resi conto che quella non doveva e né poteva essere un’intervista tradizionale.
Roberto voleva parlare, raccontare, arrabbiarsi, rallegrarsi, sperare. Colsi tutto quel che potei, forse quasi nulla rispetto agli innumerevoli spunti che mi offrì in due ore abbondanti di ininterrotta conversazione. Roberto in quell’occasione mi apparve come la più netta e tangibile rappresentazione che mente e corpo invecchiano con tempi diversi. La sorte di ognuno, ma in primis la motivazione, la cultura e gli entusiasmi possono, e molto, nel rallentare il primo tra i due decadimenti. Mentre parlava, mentre effettuava le più opportune scelte lessicali come da sua abitudine e vezzo, scorrevano storie, aneddoti, esperienze di vita, raccolte nella consapevolezza di avere tanti progetti, nel malcelato dubbio di non poterli realizzare tutti. Citava l’infinito, come il più degno dei teatranti, allo scopo di rifuggire il pensiero della morte. Parlava con espressioni a tratti malinconiche, decadenti, poi d’un tratto estraeva dalla sua faretra di grande oratore un belligerante dardo e tornava a ravvivarsi, lo faceva specie quando conversava di presente, di Verona. Amava Verona, mal digeriva i suoi governanti. Non gli piaceva questa Amministrazione, in realtà non gliene sono piaciute molte negli anni. Criticava aspramente la scarsa attenzione della politica all’arte e alla cultura, rifuggiva l’idea che la critica e la stampa di questa città potessero essere asservite al potere fino ad annullare il proprio compito, la propria natura. Si preoccupava infine di non aver ancora identificato un erede nella propria Compagnia teatrale. Difficile essere successore di Puliero, impossibile probabilmente, forse se ne stava rendendo conto. Durante l’intervista mi raccontò della sua esperienza di insegnante, lo considerava il suo vero lavoro. Me ne parlò con dolcezza ed ebbi la convinzione che per qualche attimo si stesse perdendo a scorgere nei ricordi i visi e gli sguardi di molti dei suoi alunni del tempo. Si sentiva insegnante, lo era ancora, anche lì, di fronte a me, con una punta di narcisismo, tipica degli artisti migliori.
Verona con la sua scomparsa perde nel contempo un attore, un comunicatore, un insegnante, un radiocronista apprezzato, e chissà quanto altro, ma soprattutto l’emblema della parte migliore della città. Puliero rappresenta, infatti, la Verona intellettuale senza ostentazione, la Verona scanzonata, raffinata e popolare. Una Verona viva, brillante, appassionata, di parte. Altro che la Verona da cartolina, città dell’amore, cuoricini, balconi, conformismo e turismo mordi e fuggi, proprio quella che Roberto ha osteggiato fino all’ultimo.