La cittadina vaticana Emanuela Orlandi scompare un pomeriggio di inizio estate del 1983, all’età di 15 anni, dopo essere stata alla consueta lezione di flauto all’Accademia di musica di Sant’Apollinare, dove viene vista per l’ultima volta.

Tra il 1982 e il 1983 ci sarà un’anomala concentrazione di ragazze, coetanee di Emanuela, scomparse nell’area metropolitana di Roma e dintorni: 39, per la precisione. Ma solo per Emanuela Orlandi, a distanza di pochi giorni da quel 22 giugno, quando ancora non è chiara la dinamica della sua scomparsa né i motivi che l’hanno causata, l’allora Papa Giovanni Paolo II fa un appello durante l’Angelus dal balcone che affaccia su migliaia di fedeli riuniti in piazza San Pietro nel quale invoca «il senso di umanità di chi abbia responsabilità di questo caso».

Pietro Orlandi ha sempre sostenuto che quell’appello del Papa colse del tutto impreparata la sua famiglia, perché fece pensare che il Papa fosse a conoscenza di qualcosa che loro ignoravano e lasciava chiaramente intendere che Emanuela fosse stata rapita, quando le indagini degli organi inquirenti italiani propendevano, in quel momento, per un allontanamento volontario della ragazza.

L’Americano

Il 5 luglio 1983 giunge una chiamata alla sala stampa vaticana. All’altro capo del telefono c’è un uomo, che parla con uno spiccato accento anglosassone (e per questo sarà ribattezzato dalla stampa dell’epoca “l’Americano”), che afferma di tenere in ostaggio Emanuela Orlandi, sostenendo che molti altri elementi erano già stati forniti da altri componenti della sua organizzazione e richiedendo l’attivazione di una linea telefonica diretta con il Vaticano.

L’Americano chiama in causa Ali Ağca, l’uomo che aveva sparato al Papa in Piazza San Pietro un paio di anni prima, chiedendo un intervento del pontefice Giovanni Paolo II affinché venisse liberato. Fu quindi ipotizzato che i responsabili del rapimento di Emanuela Orlandi fossero degli esponenti dei Lupi Grigi, un’organizzazione terroristica nazionalista turca di ispirazione neofascista, a cui lo stesso Ağca era affiliato, che miravano ad una sorta di “scambio di prigionieri”.

Ma Ali Ağca, in quel momento detenuto nelle carceri italiane e interrogato dalle autorità italiane, condannò fin da subito il rapimento della ragazza, dichiarandosi estraneo alla vicenda e manifestando il proprio supporto alla famiglia Orlandi, allo Stato Italiano e al Vaticano, e la pista del terrorismo internazionale fu così presto abbandonata dagli inquirenti.

In totale Papa Giovanni Paolo II farà otto appelli per la liberazione di Emanuela Orlandi, ma senza che il Vaticano collabori mai alle indagini sulla scomparsa della sua cittadina, adducendo in sostanza il fatto che Emanuela fosse scomparsa su suolo italiano e non vaticano.

Vaticano e Banda della Magliana

A distanza di oltre 20 anni, l’11 luglio del 2005 giunge alla redazione del programma Chi l’ha visto? una telefonata anonima in cui si dice che, per risolvere il caso di Emanuela Orlandi, era necessario andare a vedere chi è sepolto nella basilica di Sant’Apollinare e controllare «del favore che Renatino fece al cardinal Poletti».

Si scopre così che il defunto in questione è Enrico De Pedis (detto Renatino), uno dei capi della banda della Magliana, la cui sepoltura nella basilica di Sant’Apollinare era stata voluta e autorizzata dal cardinale Ugo Poletti, allora presidente della CEI (Conferenza Episcopale Italiana, ndr). A quel punto la magistratura romana inizia ad indagare sui rapporti tra il Vaticano, la banda della Magliana e la scomparsa di Emanuela Orlandi, e riguardo al motivo per cui la Banda della Magliana avrebbe rapito Emanuela Orlandi fu ipotizzato, in particolar modo dal giudice Rosario Priore, che il sequestro sia stato un colpo della Banda per ricattare il Vaticano e pretendere la restituzione di un’importante somma di denaro.

In quegli anni, infatti, lo IOR, l’istituzione finanziaria pubblica della Città del Vaticano, gestito dal potente arcivescovo Paul Marcinkus, svolgeva un ruolo di tramite tra la Santa Sede e il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, una banca di Milano che effettuava anche riciclaggio di denaro da attività illecite, incluse attività della criminalità organizzata italiana. Tramite lo IOR di Marcinkus, la Santa Sede avrebbe preso in prestito un’ingente somma di denaro dal Banco Ambrosiano per finanziare le attività di Solidarnosc in Polonia, patria dell’allora Papa Giovanni Paolo II, per contrastare il comunismo in Unione Sovietica. Nel 1982 il Banco Ambrosiano fallisce andando in bancarotta, e lo stesso Roberto Calvi sarà ritrovato “suicidato” a Londra pochi mesi dopo.

La Banda della Magliana, a questo punto, desiderosa di riavere i suoi soldi, avrebbe rapito Emanuela Orlandi, cittadina vaticana e figlia di un funzionario vaticano, per fare pressioni volte ad ottenere la restituzione della somma di denaro prestata allo IOR. A sostegno di questa teoria, il 24 luglio 2011 Antonio Mancini, ex boss della banda della Magliana e collaboratore di giustizia, in un’intervista al quotidiano la Stampa dichiarò che, effettivamente, la Orlandi fu rapita dalla banda per ottenere la restituzione del denaro investito nello IOR attraverso il Banco Ambrosiano, come ipotizzato dal giudice Priore.

Va da sé che finora la mancata disponibilità del Vaticano a collaborare nelle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi non ha mai consentito di confermare o meno le dichiarazioni dei pentiti tramite i documenti secretati dallo Stato Vaticano stesso, né di trovare i dovuti riscontri alle ipotesi della magistratura italiana. Pietro Orlandi, con il suo avvocato Laura Sgrò, esperta di diritto canonico e avvocato rotale, ha inoltrato nel corso di questi 40 anni numerose richieste di rogatoria internazionale allo Stato del Vaticano, tramite i magistrati, per accedere a documenti e verificare testimonianze, ma quel che è seguito è stata fino a pochi mesi fa una vera e propria quaresima di silenzi da parte della Santa Sede.

Una commissione d’inchiesta

Nel frattempo, nel parlamento italiano si discute da mesi dell’istituzione di una commissione di inchiesta sul caso Orlandi, mentre a gennaio il Vaticano, su richiesta di Papa Francesco, ha aperto per la prima volta un fascicolo d’indagine sulla scomparsa, che oggi è in mano al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi.
Quest’ultimo, se da un lato ha chiesto e ottenuto la collaborazione della procura di Roma, pochi giorni fa, convocato a palazzo Madama, si è detto contrario alla commissione parlamentare che sarebbe, a parer suo, una «intromissione perniciosa».

Ed è di martedì 20 giugno la notizia che in Senato è stata rinviata ancora una volta la discussione per la Commissione parlamentare di inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi (e di Mirella Gregori, che scomparve a Roma un mese prima di Emanuela), approvata invece rapidamente alla Camera qualche mese fa. Tornata di nuovo in esame nella prima Commissione Affari Costituzionali del Senato, la decisione e l’eventuale voto degli emendamenti presentati sono slittati così di una settimana, come riporta l’agenzia di stampa Adnkronos.

Difficile non trovare un fil rouge tra la scelta della maggioranza in Senato di posticipare la decisione e le dichiarazioni del promotore di giustizia vaticano Diddi, nel momento in cui una commissione d’inchiesta parlamentare dovrebbe essere totalmente indipendente sia dalla Procura che dal Vaticano.

Un caso emblematico

Il caso Orlandi continua così ad essere l’emblema dell’inefficienza degli Stati coinvolti di fronte alla richiesta di verità di cittadini che hanno perso una figlia e una sorella e, dopo 40 anni, continuano a vedersi negata la consolazione della verità sulla sua scomparsa.

Ma Pietro Orlandi, ospite di recente in una trasmissione televisiva, ha ribadito che «(…) se è lecito sospettare che qualcuno abbia tutto l’interesse a che la verità su mia sorella non emerga, sia chiaro che noi non molleremo, e quando sarò morto io, ci saranno comunque i miei figli che continueranno la ricerca della verità su Emanuela».

E non solo i figli di Pietro Orlandi: tutto il Paese è da sempre al suo fianco nella volontà di far emergere cosa è davvero accaduto, e perché, quel 22 giugno 1983.

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