Il professor Sergio Fabbrini, politologo di fama internazionale e docente emerito alla Luiss Guido Carli, è intervenuto in un recente incontro promosso dal Movimento Federalista Europeo per presentare il suo ultimo libro dal titolo “Nazionalismo 2.0. La sfida sovranista all’Europa integrata“, che affronta con rigore e profondità il ritorno del nazionalismo in Europa e le sue implicazioni sul processo di integrazione. L’opera si configura come una riflessione strutturata su uno dei fenomeni più rilevanti della politica contemporanea: il nazionalismo, nella sua nuova versione “2.0”, che si insinua nel cuore stesso dell’Unione Europea.

Secondo Fabbrini, l’obiettivo principale del libro è liberare il dibattito sul nazionalismo dalla contingenza politica e dalla retorica giornalistica, per indagarne le cause strutturali. Il suo approccio non si limita a denunciare il ritorno del nazionalismo, ma cerca di comprenderne la logica interna e di valutare le conseguenze che esso produce sulla costruzione europea. Non è, quindi, un testo militante, bensì uno strumento analitico pensato per chi vuole capire, prima ancora che giudicare.

Due forme di nazionalismo

Fabbrini distingue due forme storiche di nazionalismo: il nazionalismo 1.0, o indipendentista, e il nazionalismo 2.0, o sovranista. Il primo è quello che si oppone frontalmente al progetto europeo, ritenendo la sovranità nazionale incompatibile con ogni forma di sovranità sovranazionale. Ha avuto un ruolo marginale nella fase iniziale dell’integrazione europea, per poi riemergere con forza nel 2016, con il referendum sulla Brexit. Tuttavia, sostiene l’autore, quella vittoria è stata una “vittoria di Pirro”: se da un lato ha segnato l’apice della protesta nazionalista, dall’altro ha evidenziato i gravi costi economici, sociali e politici dell’uscita dall’Unione.

Sergio Fabbrini

Da quel momento, sostiene Fabbrini, si è aperta una nuova fase: quella del nazionalismo 2.0, o sovranismo, che non mira più all’uscita dall’Unione ma alla sua trasformazione dall’interno. I nuovi nazionalisti – dalla destra radicale francese a quella italiana, passando per molte altre forze in Europa – accettano l’esistenza dell’Unione ma si oppongono alla sua dimensione sovranazionale, puntando invece a rafforzare l’elemento intergovernativo. È un mutamento strategico: il sovranismo non vuole distruggere l’Unione, ma piegarla agli interessi nazionali. La sua arma è il Consiglio europeo, composto dai capi di governo, che decide all’unanimità, rendendo inefficace ogni tentativo di integrazione profonda.

La visione di Fabbrini è chiara: la logica intergovernativa, rafforzatasi in modo esponenziale a partire dal Trattato di Maastricht del 1992, ha finito per legittimare il ritorno del nazionalismo. L’Unione Europea ha sviluppato una governance duale: da un lato un motore sovranazionale (Commissione, Parlamento, Corte di Giustizia), che regola il mercato unico e promuove l’integrazione normativa; dall’altro un motore intergovernativo, che gestisce le grandi politiche strategiche (difesa, esteri, fisco, sicurezza). Questo secondo motore, spiega Fabbrini, è diventato dominante con l’avvento delle “polycrisis”, dalle crisi del debito sovrano all’emergenza migratoria, dalla pandemia alla guerra in Ucraina.

Una deriva istituzionale

In tutte queste crisi, i governi nazionali hanno ripreso il centro della scena. Se negli anni Novanta il presidente della Commissione europea era il volto pubblico dell’Unione, oggi lo sono i capi di governo riuniti nel Consiglio europeo, ciascuno dei quali rivendica ciò che ha “portato a casa” per il proprio paese. In questo contesto, l’interesse europeo scompare, sostituito dalla somma di interessi nazionali, spesso divergenti. La conseguenza è che l’intergovernamentalismo, anziché unire l’Europa, la divide, creando coalizioni variabili, conflitti interni e blocchi decisionali.

Questa deriva istituzionale, secondo Fabbrini, è una delle principali cause strutturali dell’ascesa nazionalista. Ma ve ne sono altre due. La seconda è di natura politica: l’approfondimento dell’integrazione e la globalizzazione hanno prodotto fenomeni sociali complessi, come l’insicurezza economica, la percezione di perdita di controllo e la paura dell’immigrazione. In questo clima, le destre nazionaliste hanno saputo mobilitare il consenso, proponendo una narrazione semplice e rassicurante, centrata sul ritorno alla sovranità e all’identità nazionale.

La terza causa è culturale: in molte società europee è cresciuta una domanda di riconoscimento identitario che le istituzioni europee, percepite come lontane e tecnocratiche, non sono riuscite a intercettare. Questo deficit di legittimità democratica ha alimentato la sfiducia e aperto la strada a leader nazional-populisti, capaci di interpretare il malessere diffuso.

Fabbrini non si limita a descrivere la situazione: propone anche una diagnosi del rischio che l’Europa sta correndo. Se il sovranismo continuerà a prevalere, l’Unione si trasformerà progressivamente in una confederazione debole, dove le decisioni si prendono all’unanimità e i diritti comuni sono sacrificati sull’altare delle agende nazionali. L’alternativa, suggerisce implicitamente l’autore, è un rilancio del progetto federale, capace di superare la logica degli stati-nazione e di restituire senso e legittimità alla costruzione europea.

Una risposta strutturale

In definitiva, il libro di Sergio Fabbrini – e la sua appassionata presentazione – rappresentano un contributo fondamentale al dibattito sul futuro dell’Europa. Il suo messaggio è un invito alla lucidità: il nazionalismo non è un’anomalia passeggera, ma una risposta strutturale a trasformazioni profonde; per contrastarlo non bastano slogan, serve un progetto altrettanto strutturato, capace di coniugare sovranità condivisa, democrazia effettiva e identità europea.

Si tratta di un compito urgente, soprattutto per chi – come i federalisti europei – crede nell’attualità del progetto di un’Europa unita, democratica e solidale.

Anche perché, come diceva il presidente francese François Mitterrand oltre quaranta anni fa, ‘le nationalisme, c’est la guerre”… nel senso che politiche nazionalistiche, invece che patriottiche, prima o poi portano alla guerra fra gli Stati.

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