Ci sono concetti che nascono per rendere visibile ciò che il potere preferisce tenere fuori fuoco. Non nascono per abbellire il discorso pubblico, ma per incrinarlo. L’intersezionalità appartiene a questa famiglia: è uno strumento inventato per togliere al dominio la sua finzione di semplicità. La sua tesi di partenza era brutale nella sua evidenza: le oppressioni non agiscono in fila, ma in intreccio; non si susseguono, ma si attivano simultaneamente. Se la vita sociale è un terreno di stratificazione violenta, allora nessuno vive il razzismo “puro”, il sessismo “puro”, lo sfruttamento “puro”. Non esistono purezze nella sofferenza, perché non esistono purezze nel potere.

L’intersezionalità è nata per impedire una lettura analiticamente comoda e politicamente innocua: quella che separa le forze di dominio come se fossero indipendenti. Non si trattava di aggiungere nuove identità a un catalogo, ma di demolire il catalogo stesso: di mostrare che razza, classe e genere non sono linee parallele che poi si incontrano “nella persona”, ma ingranaggi che operano insieme per costruire quella persona come corpo sociale gerarchizzato.

Dal potere alla biografia: quando l’analisi diventa terapia

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E tuttavia, nel suo viaggio fuori dai testi critici, qualcosa è cambiato. Nel passaggio dai seminari alle assemblee, dagli articoli alle conferenze istituzionali, dalle aule ai social, dall’analisi alla pratica — l’intersezionalità ha subito una torsione. Invece di restare un metodo per leggere come il potere produce soggettività sfruttabili, è diventata uno strumento per certificare soggettività ferite. Il fuoco si è spostato dal dispositivo alla biografia, dal meccanismo alla testimonianza. L’intersezionalità, in origine teoria, è diventata identità.

Nancy Fraser aveva previsto questo esito quando scriveva che “una politica del riconoscimento separata dalla redistribuzione finisce per consolidare le stesse ingiustizie che afferma di criticare. È esattamente ciò che è accaduto: il riconoscimento ha preso il posto della trasformazione. Le strutture restano intatte, ma le identità ricevono un certificato morale.

Fraser, Segato, Lugones: la critica era già scritta

Il potere contemporaneo è perfettamente attrezzato per sopravvivere alla nominazione: basta che la nominazione non evochi una strategia. Il neoliberismo non teme di essere descritto; teme di essere disinnescato. Una critica che resta nel registro della rappresentazione non è un pericolo: è una valvola di sfogo. Rita Segato lo ha formulato con precisione: “la nominazione senza conflitto è una forma evoluta di pacificazione. E infatti oggi la critica si consuma, ma non produce frattura.

Da una prospettiva materialista, questa neutralizzazione non è un incidente: è funzionale. Se l’intersezionalità resta confinata nella soggettività, il potere rimane fuori campo. Silvia Federici ricorda che “il capitalismo non si limita a sfruttare il lavoro: produce i soggetti che può sfruttare. Se i corpi che soffrono sono un prodotto del dispositivo, allora guardare solo ai corpi significa guardare al risultato e non alla causa. È l’equivalente politico di arrivare sempre un minuto dopo.

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La prospettiva decoloniale spinge la stessa diagnosi più in fondo: non solo le oppressioni non si sommano, ma non nascono separate. Rita Segato scrive che “l patriarcato contemporaneo non è un fatto domestico, ma una tecnologia di governo della vita generata dal progetto coloniale. Non esiste genere neutro: nasce già inscritto nella matrice coloniale del valore. E Maria Lugones ha mostrato che “il sistema moderno/coloniale del genere è il telaio che ha reso possibile la classificazione gerarchica delle vite. In altri termini: l’intersezionalità non descrive ciò che si “incontra” nei soggetti, ma ciò che è stato prodotto insieme fin dall’inizio.

Il riconoscimento non libera: integra

Se questa genealogia è vera, allora la versione amministrativa dell’intersezionalità — quella che elenca le differenze come titoli identitari — non è solo insufficiente: è regressiva. Toglie dal discorso proprio ciò che la teoria era nata per mostrare: la radice comune del dominio. Quando si guarda all’identità invece che all’infrastruttura, la violenza perde il suo motore politico e si riduce a fenomeno morale.

Il passo successivo è conseguente: se la politica parte dall’identità ferita, la politica si frammenta. Le coalizioni diventano improbabili perché ogni soggetto percepisce la propria ferita come incomparabile. La convergenza viene vissuta come cancellazione. Il conflitto verticale viene sostituito da una conflittualità orizzontale tra oppressi. È la vittoria più raffinata del potere: dividere chi avrebbe ragioni comuni per unirsi.

Una teoria che non produce rischio non è più teoria

Da qui l’urgenza di restituire all’intersezionalità la sua forza originaria: non catalogare differenze, ma disinnescare dispositivi. Non partire da chi parla, ma da ciò che produce le condizioni perché qualcuno debba parlare da subordinato. Non chiedere legittimità discorsiva, ma colpire il motore della riproduzione dell’ingiustizia.

Una intersezionalità che non torna alla struttura diventa una grammatica morale, non una forza politica. Essa organizza la sensibilità, non la strategia. Produce diagnosi, non manovre. Crea disaccordo tra subordinati, non asimmetria contro i dominanti. Il neoliberismo è riuscito in ciò che sembrava impossibile: trasformare lo strumento nato per incrinare il potere nello strumento che lo rende governabile.

Questo avviene perché il capitalismo contemporaneo non elimina la critica — la converte. Non censura il linguaggio antagonista — lo integra. Mohanty lo formula senza ambiguità quando denuncia il femminismo neoliberale come un femminismo che culturalizza la violenza, sottraendola alle sue genealogie economiche e imperiali. Una violenza culturalizzata è una violenza depoliticizzata. Una violenza depoliticizzata è una violenza legittimata.

Il cuore della questione è questo: una critica senza orizzonte di destituzione non è una critica, è semantica. Una teoria che non modifichi i rapporti di forza diventa una lingua della convivenza. Ma la convivenza, quando la struttura è violenta, non è un valore: è complicità.

Restituire all’intersezionalità la sua funzione

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Restituire all’intersezionalità la sua potenza originaria significa reinserirla nel terreno della riproduzione materiale del dominio. Ciò che conta non è chi parla, ma quale ordine lo rende necessario. Il problema non è la quantità delle differenze, ma il meccanismo che le rende operative. Il focus non è sulla ferita, ma sulla fabbrica che la rende possibile.

Significa anche sostituire la domanda identitaria “da dove parlo?” con la domanda strategica “dove si può colpire perché smetta di funzionare?”. L’intersezionalità non è una mappa di chi soffre: è una mappa di dove l’ordine è vulnerabile.

Questo implica riportare la differenza al suo statuto politico: non una proprietà del soggetto, ma una conseguenza strutturale. Non una bandiera, ma una prova. Non un diritto di parola, ma un criterio di alleanza. Una differenza politicamente intelligente non chiede riconoscimento — chiede complicità nella rottura.

Il compito non è aggiustare l’intersezionalità ma restituirla al conflitto. Liberarla dal regime testimonial-identitario che la sterilizza e ricollocarla dove il potere non può assorbirla: nella ricomposizione dei dominati in un blocco capace di rendere ingovernabile l’ingiustizia. In termini secchi: o l’intersezionalità torna a produrre rischio per l’ordine, oppure è già un suo strumento.

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