Da diversi mesi, ormai, le varie organizzazioni umanitarie presenti nella Striscia di Gaza chiedono un cessate il fuoco immediato. I casi di malnutrizione che colpiscono la popolazione, in particolare i bambini, aumentano ogni giorno con gli aiuti umanitari che stentano ad arrivare. Operare in queste condizioni per molti medici e infermieri presenti sul territorio è diventato quasi proibitivo. Nonostante ciò, la loro presenza è fondamentale sia per l’apporto sanitario che forniscono al popolo palestinese, sia perché rappresentano l’unica testimonianza – i giornalisti non sono ammessi – per raccontare ciò che sta avvenendo.

Nell’aula di Veronetta129 abbiamo incontrato Lien, un’infermiera belga che lavora per un’organizzazione umanitaria no profit. Lien vive a pochi minuti a piedi da Veronetta dove sta studiando l’italiano – il suo compagno abita a Verona e lo ha conosciuto mentre entrambi operavano a Gaza – in attesa di partire per un’altra missione.

Lien, cosa l’ha spinta a lavorare per un’organizzazione no profit nonostante avesse già un lavoro come infermiera in Belgio?

«Ho deciso di partire in missione umanitaria per un motivo. Ho iniziato la mia carriera come lavoratrice cinque anni fa in Belgio in un ospedale e sono rimasta lì per circa due anni. Dopodiché sentivo che ero stanca di rimanere ferma in un solo posto perciò per un anno e mezzo ho viaggiato facendo varie esperienze che mi hanno portato a lavorare, ad esempio, in Nuova Zelanda come infermiera. Infine, ritornata in Belgio, percepivo che quella non era la mia vocazione. Curavo molte persone per prolungare la loro vita il più possibile, ma mentre ero lì mi chiedevo: “Investiamo un sacco di risorse per questo tipo di cure mentre in altre parti del mondo ci sono persone che non ricevono nemmeno le cure basilari per sopravvivere”. Mossa da questo pensiero mi sono unita a una organizzazione umanitaria no profit e sono partita.»

«Gaza nel 2021 era un posto diverso da come l’opinione pubblica può immaginare»

Ed è arrivata a Gaza. Com’è cambiata da quando sei arrivata fino all’occupazione del 7 ottobre?

«Sono stata per la prima volta a Gaza nel 2021 per 4 o 5 mesi e poi per altri due mesi da dicembre dello scorso anno fino a questo febbraio. La differenza tra le due volte è stata abissale. Quando sono arrivata a Gaza nel 2021 era un posto diverso da come l’opinione pubblica può immaginare. Ricordo che rimasi veramente impressionata da questa bellissima città, con edifici meravigliosi, negozi e bellissime case. Anche le persone che vivevano in città conducevano una vita normale, come andare all’università o spostarsi all’estero in comodità. Muoversi non era così difficile e il tragitto per andare all’aeroporto era un percorso normale. Poi, dopo il 7 ottobre e aver attraversato il confine, ho visto un mondo completamente diverso. Il paesaggio che avevo davanti era diventato piatto con tutti gli edifici distrutti, rasi al suolo. Le persone vivevano accampate lungo le strade cercando di condurre una vita normale, ma non lo era. È stato scioccante.»

Una vista di Jabalya nella Striscia di Gaza (Foto Nour Alsaqqa/MSF)

La densità di popolazione in uno spazio urbano ridotto è elevatissima. Oltre a ciò, secondo l’Associated Press, sono più di 1050 i civili uccisi mentre cercavano cibo. Comè possibile operare in una situazione simile?

«Quando ho lavorato a Gaza sono stata in un ospedale in un’area specifica con un numero di pazienti enorme. Tutto ciò causava un sovraffolamento che portava anche al rischio continuo di infezioni e spesso, purtroppo, capitava di dover capire chi aiutare e chi meno. E questa è una scelta molto difficile da fare perché da persona vorresti aiutare tutti ma non ci sono le risorse sia fisiche che materiali. Ogni volta cerchiamo di fare il possibile, ma non è mai abbastanza. Perciò anche la malattia più comune può diventare una sfida impegnativa. Dentro gli ospedali spesso è il caos, nel frattempo, fuori centinaia di persone sono in attesa alla ricerca di aiuto e di cure.»

«Dobbiamo avere la consapevolezza che parliamo di persone»

Una cosa su cui ci si interroga è la mancanza di percezione di ciò che veramente accade. Spesso le immagini che vediamo in televisione o su internet vengono dimenticate il giorno dopo, mentre a Gaza si sta compiendo un genocidio. Secondo lei ci stiamo disumanizzando o, meglio, abituando alla tragicità delle immagini filtrate degli schermi?

«Noi non possiamo neanche immaginare. Parliamo molto di Gaza e della Palestina in termini di numeri: i numeri di morti, sfollati, dei giorni di guerra ma rimangano numeri nell’immaginario della maggior parte delle persone e tutto ciò non rende i numeri delle persone umane. Me ne sono resa conto andando direttamente sul campo. In quelle circostanze ho incontrato persone normalissimi proprio come me e te. Persone che però non possono condurre una vita normale per la guerra. Noi vediamo l’orrore in televisione e sui social, ma questo può farci sentire inutili. L’importante, dunque, è avere la consapevolezza che parliamo di umanità, di persone. Al di là dello schieramento politico, tutto ciò sta succedendo difronte a noi e ce ne dobbiamo rendere conto. È solo una coincidenza il fatto che siamo nati in un posto come l’Italia o il Belgio. Sarei potuta nascere benissimo in Siria, in Sud-Sudan o in Gaza. Oltre a ciò, da quanto sono in Italia avverto una differenza nel racconto di questa catastrofe umanitaria.»

Foto da Unsplash di Mohamed Ibrahim

C’è differenza tra i media belgi e italiani?

«Leggo cosa viene scritto nei media italiani e nei media belgi e devo dirti che c’è una differenza. I media belgi sono molto più espliciti, con dettagli riguardo tutto ciò che succede. I media italiani, almeno quelli con un’alta risonanza, riportano spesso informazioni generiche. Se si vuole veramente informarsi su ciò che sta succedendo occorre leggere più giornali. Non parlo solo quelle riguardanti il Belgio ma anche, per esempio, Al Jazeera

E com’è stato il ritorno da Gaza a un Paese dove la guerra non è presente?

«Le persone mi chiedono sempre se ho difficoltà o tornare. In realtà, al momento, mi sento in colpa perché non mi trovo a Gaza fisicamente per aiutare. Quando sono là, può apparire un controsenso, ma mi sento bene perché sento di essere nel posto giusto. Certamente è un periodo stressante e due mesi di lavoro sono molti in quel contesto, ma sono la misura giusta per permetterti di far bene il tuo lavoro. Quando torni a casa sei stanco, ma io avverto un senso di colpa importante per essere tornata. Oltre al fatto che lavorare in determinati contesti aiuta a creare una sinergia con i tuoi colleghi difficile da replicare.»

In tutto questo dolore hai percepito una fascio di speranza?

«Sì, grazie alle persone di Gaza. L’anima delle persone è talmente forte che spesso faccio fatica a credere che nonostante tutto siano ancora lì a resistere. E vedo tanto calore umano e gentilezza nei rapporti fra le persone. Ricordo il momento in cui, nonostante il problema enorme del cibo e della malnutrizione, è arrivato un rifornimento. Arrivò un carico di coca-cola e cioccolata e non era certamente quello di cui avevamo bisogno perché un bambino non ha bisogno della coca-cola. Eppure, nonostante ciò, le persone condividevano tra di loro queste cose, anche con me. Il più grande complimento che mi hanno fatto è stato dire che io sorrido sempre, perché anche in quelle situazioni le persone sorridono e questo ci condiziona inevitabilmente. Questo non dobbiamo dimenticarlo. Piccoli momenti di gioia che significano moltissimo.»

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