Hebron, città palestinese con un insediamento ebraico. Oltre al massiccio controllo militare, tiene soppresse le rivolte la presenza della Grotta dei Patriarchi, monumento universale comune alle religioni ebraica e islamica. Si dice infatti che in questa grotta sia sepolto il loro Padre comune, Abramo. Nella grotta si è perpetrato il massacro del 1929 durante il quale furono assassinati 68 ebrei per mano araba. Da allora mai si è fermata la rincorsa delle vendette reciproche.

Hebron laboratorio di oppressione

H2 è il nome di una zona centrale di Hebron, lunga poco più di un kilometro, nella quale vivono circa 800 coloni sionisti, circondati da palestinesi e protetti dalle milizie israeliane. È come una miccia in una polveriera. Una quotidiana sfida ai possessori originali di quelle abitazioni e un simbolo del potere ebraico che si è imposto in questa città.

Scintille

Il caso Azaria riguarda un fatto del 2016: due palestinesi cercarono di superare un blocco militare di soldati israeliani che sorvegliavano un edificio abitato da sionisti. L’attentato fallì e nel tumulto rimase ferito un soldato. I commilitoni aprirono il fuoco sugli aggressori, dei quali uno rimase a terra ferito. Un medico dell’esercito, anziché soccorrerlo, dopo pochi minuti gli si avvicinò e lo freddò. Dei giornalisti ripresero tutto ed il filmato scatenò un terremoto nelle istituzioni, che portò alle dimissioni del ministro della difesa (il quale si era battuto per processare il medico). La segregazione etnica divenne ancor più aspra.

Da questa vicenda, la documentarista Idit Avrahami ed il giornalista politico Noam Sheizaf hanno preso spunto per raccogliere filmati, documenti e materiale di questa realtà. Si dice infatti che Hebron sia la città del Medioriente più fotografata. Un excursus dal 1917 ad oggi fatto di testimonianze, filmati ed interviste. L’attenta analisi delle vicende di questo luogo, aiutano a capire, per estensione, la situazione conflittuale del Medioriente. Scorrendo le pagine della storia, i racconti delle persone rendono reale questa situazione che sulla carta ha solo dell’orribile grottesco. Lungo questo chilometro nella città vecchia di Hebron si svolgono accadimenti che dovrebbero insegnare a non commettere nuovamente gli errori del passato, ma che ciclicamente si ripresentano come non ne restasse traccia.

Perchè è nato Israele?

Tutto ha inizio agli albori dello scorso secolo, per una decisione politica dell’Occidente: creare uno stato soinista nel quale far convergere gli ebrei da tutto il mondo. Fu così che iniziarono gli insediamenti appoggiati dalla Gran Bretagna, che deteneva il mandato in quelle terre. Vennero sfollati migliaia di palestinesi, furono occupate le loro case. Iniziò così la resistenza palestinese, che si doveva scontrare sia contro i coloni sionisti che contro l’imperialismo britannico.

Durante gli anni, più volte i governi europei o leader dei governi palestinesi hanno tentato una conciliazione, ma ogni tentativo è stato vano. Non è servita la proposta del piano PEEL del 1937, sfociata in un bagno di sangue e la repressione dei ribelli palestinesi. Più di 20.000 palestinesi persero la vita, molti furono arrestati ed altri internati.

La posizione internazionale

Al termine della seconda guerra mondiale, le Nazioni Unite approvarono nuovamente un piano per dividere la Palestina in due sottostati, uno in capo agli arabi e l’altro ebraico. Ovviamente i palestinesi rifiutarono, rivendicando fortemente il diritto al reintegro dell’intero territorio e degli interi possedimenti a loro sottratti. D’altro canto i sionisti non solo accettarono, ma fecero sì che diventasse la legittimazione di uno stato ebraico. L’occupazione di terre da parte degli ebrei così continuò, forte dell’appoggio degli organismi internazionali ed il 14 maggio 1948 Ben-Gurion, allora presidente del Comitato Esecutivo dell’Agenzia Ebraica appoggiata dalla Gran Bretagna, dichiarò ufficialmente l’instaurazione del dominio sionista. Stati Uniti ed Unione Sovietica riconobbero subito il regime occupante in Israele.

Al termine della proiezione, il dibattito moderato da Stefania Berlasso, lascia spazio sia alla fotografia politico-giuridica dell’avvocata Sondra Faccio che a quella umantaria di Jacopo Rui dell’associazione umanitaria One Bridge to Idomeni.

L’approfondimento giuridico-politico

A sinistra l’avvocata Sondra Faccio con Stefania Berlasso

L’avvocata, ricercatrice nell’area del diritto internazionale presso l’Università di Trento, spiega come le risoluzioni dell’ONU non abbiano necessariamente un risvolto effettivo nel conflitto. Sono pareri che possono influenzare le decisioni dei governi a prendere decisioni pragmatiche, ma non possono obbligare. “Dal 1948 al 2016 l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno adottato un totale di 225 risoluzioni” sulle aggressioni e i massacri degli insediamenti sionisti nei territori palestinesi, dopo la guerra dei Sei Giorni. Ognuna di queste è stata sistematicamente ignorata.

«A dicembre» ha spiegato l’avvocata Faccio per fare un esempio vicino a noi nel tempo «l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiesto alla Corte internazionale di Giustizia di rendere un parere sulle conseguenza legali  per il mancato esercizio del principio di autodeterminazione del popolo palestinese, circa la prolungata occupazione dal 1967dei territori palestinesi da parte di Israele e le conseguenze legali per le pratiche implementate da Israele nei vari territori occupati… volti ad alterare la composizione demografica e pratiche discriminatori.»

Come detto all’inizio del film, non è questo il primo territorio che viene occupato e non sarà nemmeno l’ultimo, ma il diritto internazionale ha potere per fermare tuto ciò? Vi sono convenzioni, divieti ed obblighi degli Stati, ma ci si scontra con due problemi. Il primo è l’aver a che fare con governi ribelli, che semplicemente ignorano le direttive. Il secondo è l’inspiegabile presa di posizione di alcuni membri riguardo le sanzioni o l’intervento.

Le associazioni umanitarie

L’altra voce presente ha portato al numeroso pubblico della Fucina (oltre 130 persone presenti) la testimonianza dei palestinesi migranti che One Bridge to Idomeni incontra nelle rotte balcaniche. La cosa importante da avere in mente quando si parla del conflitto israelo-palestinese, sono le origini del conflitto. Non si può scordare che il popolo palestinese è stato occupato e sistematicamente si è tentato di imporre una presenza prima e un governo poi che non apparteneva a quelle terre.

Amnesty International mette in chiaro la situazione già nel titolo del suo rapporto sulla Palestina: parla infatti di regime di apartheid. Oltre alla frammentazione, infatti, vi sono controlli con tornelli che delimitano le varie zone, riconoscimenti facciali, perquisizioni e posti di blocco. Tutti meccanismi di segregazione e controllo. Continua da parte del governo di Israele il piano per la completa espulsione dei palestinesi dalle loro terre; si perpetra ancora oggi con omicidi e pestaggi; continuano gli assedi e gli espropri nei territori palestinesi, con l’espulsione dalle loro case e gli insediamenti illegali; continua la demolizione dei simboli e del patrimonio della Palestina.

Jacopo Rui, a sinistra, con Stefania Berlasso

Rui di OBTI ci racconta come «per molte persone rimanere nella propria casa, qualora ne siano ancora in possesso, è l’ultima se non l’unica forma di resistenza non violenta che gli è permesso di fare. Nonostante i rifugiati palestinesi siano il secondo gruppo per numero, dopo i siriani, infatti arrivano quasi a 6 milioni, per i palestinesi lasciare i loro territori è più difficile perché lasciano le loro case in mano agli occupanti. Il tutto tra l’indifferenza dell’Occidente, se non il diretto appoggio.»

Per questo gli autori con forza rimarcano l’importanza della diffusione dei film. Attraverso la riesumazione di materiale che ripropone il passato, cercano di lanciare un messaggio per migliorare il futuro. Mostrano come non si fermarsi alle recinzioni, ai muri ed all’onnipresente controllo militare. H2 potrebbe passare da esempio negativo di una situazione irrisolta a manifesto del cambiamento. L’urgenza di un cambio di passo non solo nel pensiero politico, ma anche nella cultura dei diritti e della cooperazione dovrebbe far cessare lo stato di segregazione in cui si trova il popolo palestinese. Ma il fatto che “H2 The Occupation Lab” sia censurato in Israele, la dice lunga.

La rassegna di Mondovisioni – i documentari di Internazionale alla Fucina Culturale Machiavelli prosegue per altri quattro incontri, sempre il lunedì alle 21, con a seguire un dibattito di approfondimento. Programma e biglietti qui.

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