Arrivato in Italia giovanissimo, Abed Hegazi si è laureato in architettura a Venezia e oggi, a 56 anni, dirige uno studio di design a Verona. Tuttavia, il suo cuore e la sua anima restano profondamente legati a Gaza, la sua terra natale. La sua vita è un costante equilibrio tra la quotidianità italiana e il dramma che da tanti (troppi) mesi si consuma nella Striscia di Gaza, dove la sua casa è stata distrutta e tutta la sua famiglia – genitori, cugini – vive una sofferenza che lui definisce disumana. Le perdite sono state molteplici; membri della sua famiglia allargata e persone con il suo stesso cognome non ci sono più. Il futuro, in quei territori, resta incerto per tutti.

“Una sofferenza disumana”

La sofferenza a Gaza ha raggiunto livelli raramente visti nella storia umana. Ogni persona lì vive oggi in uno stato di profondo bisogno. Il più grande desiderio dell’architetto Hegazi sarebbe quello di poter parlare direttamente con Netanyahu, con i responsabili dell’esercito israeliano o con i rappresentanti del governo di Tel Aviv, per far loro comprendere l’orrore che si sta consumando. Tuttavia, consapevole dell’impossibilità (e inutilità) di questa opzione, ha scelto una strada diversa: «Trasmettere alla gente ciò che accade, spiegare, parlare in modo il più possibile obiettivo e calmo, per far comprendere la realtà con sentimento, ma anche con verità». La sua è una “testimonianza viva”, basata sul contatto quotidiano con i familiari immersi nella sofferenza, anche se è inevitabile che in situazioni simili l’obiettività risulti difficile da mantenere.

Abed si impegna con passione per alleviare le sofferenze del suo popolo. Con l’aiuto di amici e persone solidali in Italia e non solo, è riuscito nel difficile intendo di realizzare un pozzo d’acqua a Gaza. Già, perché l’accesso all’acqua potabile è una delle sfide più grandi: la gente è costretta a fare code interminabili e a trasportare carichi pesanti per chilometri, spendendo gran parte della giornata solo per assicurarsi il quantitativo d’acqua minimo per non morire.

Il pozzo creato dal progetto di Abed Hegazi

Ma l’acqua è solo una delle tante emergenze della Striscia. Il cibo è quasi introvabile o ha prezzi proibitivi: un panino, che in Europa costa pochi euro, a Gaza arriva a costare fino a 80 euro. Cifra che pochi riescono a permettersi. I Palestinesi sono così costretti a nutrirsi quasi esclusivamente di alimenti in scatola, che a lungo andare diventano un veleno, causando malattie ai denti, al fegato e numerosi problemi di salute, un «effetto molto subdolo e silenzioso, devastante quanto la guerra».

Il tradimento dell’umanità

I Palestinesi si sentono profondamente traditi dall’umanità intera. Abed traccia un amaro confronto con la solidarietà mostrata ad altri popoli, evidenziando come per i Palestinesi sia avvenuto un abbandono totale da parte delle istituzioni europee, americane e persino arabe. Nonostante le proteste e il grande sostegno della gente comune, Abed si domanda: «Che cosa risolve? Nulla. Assolutamente nulla». Con rabbia afferma che «il mondo intero è morto, proprio come è morto Gesù nella Terra Santa», e per lui oggi «la Terra Santa si chiama Gaza». I Palestinesi vorrebbero la libertà e l’autonomia, senza un’occupazione che li bombarda e distrugge la loro società e cultura.

Un’immagine sorridente di Abed Hegazi (dal suo profilo Facebook)

Abed non usa mezzi termini nel descrivere Israele, accusandolo di non aver mai cercato una vera soluzione politica al conflitto, ma solo di voler soffocare i Palestinesi. Israele utilizza metodi di intimidazione «che fanno sentire i Palestinesi come formiche da schiacciare in ogni momento, con soldati che sparano arbitrariamente a chi, ad esempio, si mette in fila per la distribuzione di viveri e imponendo le regole a loro piacimento.»

Secondo Abed, anche la politica europea è “malata” perché segue una linea errata, volta a privilegiare prima gli interessi israeliani e poi quelli americani. Auspica che l’Europa possa intervenire per correggere questa situazione e far riflettere il prima possibile Israele e chi lo governa.

“Si può vivere in pace”

Abed conclude il suo sfogo con un appello accorato: «La gente a Gaza sta morendo in massa. Bisogna agire subito e non limitarsi a parlare, anche se tutto serve». Chiede un aiuto concreto, come la creazione di nuovi pozzi d’acqua e l’invio di cibo, medicine e generi di prima necessità. Nonostante la sofferenza e la rabbia, Abed conclude con un messaggio non di odio, ma di speranza per un cambiamento profondo: «Lo dico per il bene del mondo, per il bene di noi stessi e anche per gli Israeliani. Si può vivere in pace. Deve esserci questa speranza, che non possiamo abbandonare.»

Il suo è un invito a riflettere, a non restare ciechi di fronte alla realtà, e a impegnarsi per un futuro in cui nessuno debba più soffrire in modo così crudele.

Bambini gazawi immortalati con un cartello che ringrazia l’Italia per l’aiuto a costruire il pozzo d’acqua

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