Ha impiegato 24 ore il sindaco di Verona Federico Sboarina per decidersi a condannare le violenze di mercoledì sera. Non c’era da aspettare che gli autori fossero individuati, perchè erano fieramente rei confessi attraverso le parole del leader veronese di Forza Nuova, Luca Castellini, che già nella mattinata di giovedì aveva dichiarato (in collegamento telefonico a Radio Café): «È stato solo l’antipasto… Noi supportiamo gente disperata, poi ci scappa quale scaramuccia…»
Non c’era nemmeno da preparare un gran discorso, perché sarebbe bastato dire: «Chi ha messo a ferro e fuoco il centro delle città è solo un delinquente che deve andare in galera.»

Invece dalla bocca del primo cittadino non è uscita una parola per tutta una giornata. E quando è (finalmente) uscita, si è trattato di uno sconfortante esercizio di moderatismo, laddove di essere moderati non era proprio il caso.
Dietro al condannare «ogni forma di violenza da qualsiasi parte venga, sia destra sia sinistra» traspare ancora una volta la timidezza nel prendere le distanze da quella presenza neofascista che da troppo tempo segna Verona e che troppo volte la rende protagonista negativa della cronache nazionali.
Dichiarare l’ovvio – cioè la condanna di ogni forma di violenza- è il modo più classico per non guardare in faccia la realtà dei fatti. E anche dire che«trasformare la disperazione di tante famiglie in un fatto di ordine pubblico è da irresponsabili, perché sposta l’attenzione dal vero problema» rappresenta un cesello verbale che sembra la riedizione di destra del tristemente noto “compagni che sbagliano”.

Sarebbe, però, ingiusto scaricare sul Sindaco tutta la responsabilità di questo moderatismo fuori luogo. Chi amministra la città lo fa rappresentandone gli umori e lo spirito. Il problema è che mercoledì sera a ingaggiare quella guerriglia con le forze dell’ordine, a prendere per i fondelli ristoratori e commercianti facendo credere di stare dalla loro parte solo per avere l’occasione di di menar le mani, c’erano le solite facce ben note. Ben note agli stessi locali del centro che li hanno come avventori abituali, ben note ai tifosi di calcio che se li ritrovano accanto allo stadio, ben note – purtroppo – anche a tanti politici locali che non ne disdegnano il voto. E voto – si badi bene- vuol dire delega.

È così da decenni. A memoria di chi scrive, lo è sempre stato. È una malattia di Verona, per la quale la città pare non avere mai sviluppato gli anticorpi. In tante occasione il problema ha finito per confondersi, diluirsi nella confortevole, quieta civiltà provinciale che è il pregio di Verona, ma oggi siamo di fronte a una situazione che richiede equilibrio, non equilibrismo. Da una parte c’è un’emergenza sanitaria che ha già segnato la città in modo drammatico e che minaccia di tornare a farlo, dall’altra il lavoro di categorie comunque da difendere, tanto più fondamentali per l’economia veronese. Chi si infila nel mezzo per far esplodere il conflitto non deve trovare alcuno spazio e se lo fa per vocazione pseudopolitica ogni volta che se ne presenta l’occasione, questa è la volta buona per revocargli la dignità di cittadino veronese.