Per la prima volta a Verona la compagnia Anagoor, lo scorso 27 febbraio, ha portato in scena al teatro Camploy lo spettacolo “Ecloga XI”, il cui titolo allude alla raccolta di versi IX Ecloghe che Andrea Zanzotto pubblicò nel 1962.

A “Ecloga XI” si aggiunge un sottotitolo importante, “un omaggio presuntuoso alla grande ombra di Andrea Zanzotto”, così come le IX Ecloghe erano state definite da Zanzotto “un omaggio presuntuoso alla grande ombra di Virgilio”. Attraverso questa notazione, Anagoor si sottrae a ogni arrogante tentativo di definire due comete luminose del passato, ma con le quali condivide la sofferenza per la devastazione del presente e l’ardente tenacia di rinnovare arti apparentemente lontane.

Anagoor

La compagnia Anagoor è fondata da Simone Derai e Paola Dallan a Castelfranco Veneto nel 2000. Oggi alla direzione di Simone Derai e Marco Menegoni si affiancano Patrizia Vercesi, Mauro Martinuz e Giulio Favotto, Monica Tonietto, Gayané Movsisyan, Piero Ramella, mentre continuano a unirsi artisti che rimarcano la natura collettiva di Anagoor con cui si distingue sin dagli esordi.

Il suo, infatti, è un approccio aperto ai luoghi e alle diverse generazioni, culturali e sociali, che si esprime attraverso diversi format, e per il dialogo instaurato tra performing art, filosofia, letteratura e scena ipermediale.

Il nome della compagnia prende spunto da un racconto di Dino Buzzati, Le porte della città di Anagoor, che racconta di una città utopica in cui sembra negato l’accesso a chi cerca di entrarvi, mettendo così al centro i temi dell’attesa e della riflessione metafisica sul mondo.

Da sempre la compagnia veneta ha a cuore la relazione che intercorre tra politica, lingua, ambiente naturale e paesaggio, nello sforzo di dire il reale e le sue fratture.

Ecloga XI

C’è un rapporto con un dove nel lavoro di Anagoor, ma ancor prima tale relazione l’ha avuta anche Andrea Zanzotto che esordisce nel 1951 con la raccolta Dietro il paesaggio e di cui è sempre molto difficile dire. Un po’ perché ci sente presuntuosi a parlare del poeta di Pieve di Soligo, un po’ forse perché lo stesso atto del dire, del significare attraverso il solo logos, dell’intellettualizzare, quando arido e non pulsante di vita, vanifica il nucleo di senso della poesia di Zanzotto.

“Ecloga XI” della compagnia veneta Anagoor, Foto di Giulio Favotto.

Leida Kreidere e Marco Menegoni portano dunque in scena i testi del poeta, in un’atmosfera cupa e temporalesca realizzata dal lavoro di Simone Derai che, oltre ad aver curato la regia di questo spettacolo, si è occupato anche delle scene, delle luci e, insieme a Lisa Gasparottto, della drammaturgia. Le musiche e il sound design sono invece a opera di Mauro Marinuz.

In scena un enigmatico Giorgione

Lo spettacolo si apre con lampi nel buio sui versi “Vera figura, vera natura/ slansada in ragi come ‘n’ aurora,/ che tutti quanti ne inamora” di Recitativo veneziano. In scena due attori e sullo sfondo un pannello, la Tempesta di Giorgione, da cui sono però stati cancellati la mamma che culla il bambino.

In questi piccoli elementi sembra racchiusa la questione centrale dello spettacolo: nella notte del presente è possibile trovare segni di luce? Sì, ma solo nell’aura dei grandi del passato, che come dei lampi illuminano. Ma è luce di un istante, che l’uomo non può catturare del tutto. Egli  può solamente coglierne la grandezza e la potenza ctonia ed eterna.

Pur essendo effimero quel lampo delle grandi voci del passato, torna a dirci che solamente il vero uomo e la vera natura, estirpati dalle sovrastrutture disincantate della società contemporanea e dal suo linguaggio, sanno far palpitare, innamorare, dire.

Un sebatoio poetico per il contemporaneo

L’ostinazione sul verbale di Zanzotto è quasi una litania vocale per conservare la memoria del grande serbatoio poetico e esistenziale, di cui egli si fa voce senza mai tradursi in un dato puramente letterario o estetico. Molti i riferimenti alla grande letteratura, in un percorso che pone lo spettatore verso il disincanto dell’uomo nella società contemporanea.

Come Zanzotto e attraverso Zanzotto, Anagoor intercetta e illumina l’inferno dentro il quale siamo calati, eppure conserva e dice ostinatamente una speranza bambina e pura. È coscienza della faglia su cui si cammina senza esserne fagocitati. È una vertigine geologica che ci interroga ancora una volta sulle dimensioni della nostra esistenza, del nostro egoismo e delle nostre responsabilità senza però darci per spacciati.

Nel buio finale, in un nuovo Eden buio e luminescente, Leida Kredere è nuda nella penombra, come nudo era anche stato Marco Menegoni, quasi a suggerire una ripartenza dell’uomo e del suo esistere cosmologico, dopo essersi mondato e consegnato al significato più intimo della sua esistenza, parte di un tutto universale.

Una nuova ecloga, oltre le dieci di Virgilio, in cui la mamma della Tempesta di Giorgione entra in scena a cullare il suo bambino e citare Zanzotto che invoca e quasi profetizza la pace: “Pace per voi per me/ buona gente senza più dialetto”. Affinché “la selva” possa accompagnare per imparare la “vicenda non umana/ del mio fuisse umano” in una terra ormai “cieca ad ogni tentazione d’alba”.

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