Tu non ti sei mai arreso, Dante. Hai pagato con la tua vita le tue scelte. Non sei mai stato un pusillanime, o peggio ancora un ignavo. Hai dato voce sempre al tuo pensiero, al tuo sogno, alla tua visione sociale e politica. E hai saputo elevare la tua voce alta, sicura, vincente.

Questo ricorda a me la tua opera: che forse nella vita dobbiamo avere il coraggio di idee forti e di lottare per esse. Che la precarietà, questa navicella in balia dei venti, deve essere retta e governata dalle nostre scelte. Che dobbiamo vivere la nostra vita in linea con i nostri valori, i nostri sogni, la felicità nostra e degli altri.

Anche ora che sembra tutto così incerto, così privo di possibile.

Siamo nel canto XVII del Paradiso. Nel cielo di Marte, dove lampeggia una croce gloriosa, incontri il tuo avo Cacciaguida, il quale pronuncia queste parole durissime. Tremende.

“Tu lascerai ogne cosa diletta

più caramente; e questo è quello strale

che l’arco de lo essilio pria saetta.

Tu proverai sì come sa di sale

lo pane altrui, e come è duro calle

lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle,

sarà la compagnia malvagia e scempia

con la qual tu cadrai in questa valle;

che tutta ingrata, tutta matta ed empia

si farà contr’a te; ma, poco appresso,

ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.”

La profezia dell’esilio ti arriva addosso come una freccia mortale. Ora sai che dovrai abbandonare le cose più amate e che la tua condizione sarà quella precaria dell’esiliato, del condannato a morte, privo di beni, di affetti, costretto a elemosinare ospitalità e protezione. Il pane dell’esilio è un pane salato perché bagnato di lacrime, perché così, dicevano le Scritture, deve essere il pane dell’esule.

In un’altra opera affermi:

«Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade».

Il tuo fallimento umano e personale è un vero e proprio naufragio.

In una lettera del 1304, a pochi anni dall’esilio, scrivi ai signori di Romena, per fare le condoglianze per la morte del loro zio, scusandoti di non poter partecipare al funerale per la povertà che ti affligge:

«Oltre a ciò come vostro mi scuso di fronte alla vostra discrezione dell’assenza alle lacrimose esequie, poiché né negligenza né ingratitudine mi hanno trattenuto, ma l’improvvisa povertà che l’esilio ha determinato. Questa infatti, persecutrice crudele, mi ha ormai cacciato nell’antro della sua prigionia, privato d’armi e cavalli, e pur sforzandomi io di levarmi con ogni forza, fin qui prevalendo, cerca, l’empia, di tenermi.»

E così, tu, che eri arrivato all’apice della tua carriera politica e personale, diventando persino priore di Firenze, finirai a vagabondare di corte in corte, in una situazione di semi-clandestinità, rischiando la vita, ombroso e mendico. Questa forse la vera selva oscura della tua vita. Eppure, sempre nel cielo di Marte, dopo le amarissime parole del tuo avo, una nuova consapevolezza si apre in te, una nuova certezza.

In questa crisi c’è una possibilità. In ogni abisso si attiva sempre una risorsa per risollevare le sorti. Quello che ti resta è il tuo ingegno, i tuoi autori cari (Virgilio in testa), la tua profonda spiritualità, la tua maestria nel rendere le parole musica – non importa se fatta di cozzi o dissonanze o di trilli e arpeggi paradisiaci -, la tua grandezza d’animo.

“Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,

tutta tua vision fa manifesta;

e lascia pur grattar dov’è la rogna”.

Le parole di Cacciaguida, sempre nel Paradiso, sono chiarissime: devi scrivere, senza freni, senza addolcire il gusto aspro delle parole, senza censure, devi rendere manifesta, limpida, la tua visione. Parlare schietto. Senza menzogna. Ci penseranno poi gli altri a “grattar dov’è la rogna”. Che forse all’inizio le parole saranno dure, amare, ma poi diventeranno “vital nodrimento”, vitale nutrimento.

E quando nel 1315 la tua Firenze matrigna e ingrata ti darà la possibilità di rientrare, a patto di un tuo pentimento pubblico all’interno di una cerimonia umiliante, queste saranno le tue risposte, le risposte di un uomo che non scende a patti, un uomo integro, che conosce il proprio valore:

«È questa la grazia del richiamo con cui Dante Alighieri è richiamato in patria dopo aver patito quasi per tre lustri l’esilio? Questo ha meritato una innocenza evidente a chiunque? Questo i sudori e le fatiche continuate nello studio? (…) che se non si entra a Firenze per una qualche siffatta via, a Firenze non entrerò mai (…) Forse che non vedrò dovunque la luce del sole e degli astri? Forse che non potrò meditare le dolcissime verità dovunque sotto il cielo, se prima non mi restituisca alla città, senza gloria e anzi ignominioso per il popolo fiorentino? Né certo il pane mancherà.»

Il pane non mancherà. Il pane non manca mai.

Illustrazione di Roberto Filippini, ©Froh 2020

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