Nel 2013 un ex fotografo militare, nome in codice Caesar, fece uscire di nascosto dalla sua terra natale, la Siria, devastata dalla guerra, oltre 27.000 fotografie che ritraevano i cadaveri di uomini, donne e bambini barbaramente torturati e uccisi nei centri di detenzione governativi del Paese.

Quando queste foto furono rese pubbliche sconvolsero il mondo e incoraggiarono le famiglie delle vittime a chiedere giustizia. “The lost souls of Syria” di Stéphane Malterre e Garance Le Caisne è un documentario che racconta dei tentativi (alcuni peraltro ancora in ​​corso) di chiedere conto al governo siriano di quelle torture e di quelle morti.

Stéphane Malterre

Stéphane Malterre è un regista francese. Ha conseguito un master in Scienze linguistiche e ha lavorato come giornalista, critico letterario e cinematografico. Ha quindici anni di esperienza come reporter per un’agenzia di stampa, per cui ha scritto, filmato e diretto oltre venti inchieste e documentari, trasmessi da Canal Plus, France 2, M6, Arte. Nel corso degli anni ha indagato su scandali politici e finanziari, sul traffico internazionale di armi, sui conflitti in Africa (Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo), oltre che sulla primavera araba (Tunisia, Libia, Siria). Tra i suoi lavori Jacques Chirac: La Justice Aux Trousses e Syrie, la Mort en Face. Il suo film The Father, the Son and the Jihad del 2016 è stato girato durante tre anni in Siria ed è stato selezionato per una quindicina di festival internazionali.

Garance Le Caisne

Garance Le Caisne è un’autrice e giornalista francese. Ha iniziato la sua carriera come corrispondente in Egitto, dove ha vissuto per otto anni. Ha seguito il processo di pace israelo-arabo e l’ascesa del terrorismo islamico in Medio Oriente. Come giornalista freelance ha raccontato la Siria dall’inizio della rivoluzione, per capire i crimini commessi dal regime, la trasmissione di una memoria amputata, il risveglio di una parte della società e il desiderio dei siriani di riprendere il controllo della propria storia. È l’autrice del premiato “La macchina della morte”, pubblicato in Italia nel 2016 da Rizzoli. Nel 2022 ha scritto il libro “Oublie Ton Nom: Mazen Al-Hamada, Mémoires d’un Disparu”. The Lost Souls of Syria è il suo primo lungometraggio documentario.

Il film verrà proiettato questa sera, alla Fucina Culturale Machiavelli (via Madonna del Terraglio, 10 a Verona), nell’ambito della dodicesima edizione di Mondovisioni, la rassegna di cinema che porta a Verona i documentari di Internazionale. La manifestazione è organizzata da CineAgenzia, con la collaborazione di Heraldo, che cura gli approfondimenti post-proiezione di ogni appuntamento. Questa sera è previsto l’intervento di Pietro Albi, co-fondatore di One Bridge To e Red-Lab.

Giustizia complicata

Uno dei maggiori problemi nel chiedere conto ai despoti e ai regimi autoritari è come perseguire i trasgressori per i loro crimini. Esiste, sì, la Corte penale internazionale, ma non tutti i Paesi, fra cui Stati Uniti, Russia e Cina, la riconoscono come un organo sovranazionale, mentre con l’ONU c’è sempre la possibilità che qualcuno ponga il veto verso questo tipo di risoluzioni. E infatti nel 2014 Russia e Cina si opposero a una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per consentire ai tribunali penali internazionali di perseguire il regime siriano. A questo punto la via dei tribunali nazionali, secondo il concetto chiamato “giurisdizione universale”, può rappresentare l’ultima speranza.

Delle migliaia e migliaia di vittime si parla, nel documentario, in particolare di due: lo spagnolo-siriano Abdul, il cui corpo è stato identificato nelle immagini di Caesar dalla sorella, e il franco-siriano Mazzen, scomparso con il figlio adolescente Patrick nel 2013. Si tratta, quindi, di persone in possesso della doppia cittadinanza, il che consente alle loro famiglie di poter chiedere giustizia rispettivamente in Spagna e Francia.

Il film segue gli avvocati iberici e francesi mentre, nel corso di cinque estenuanti anni, raccolgono prove, intervistano i sopravvissuti (la sequenza di un uomo siriano che descrive le sue torture nell’opulenta sicurezza dell’Aia è una straziante disconnessione, ndr) e tentano di far sì che i loro casi vengano ascoltati sia a livello nazionale sia a livello internazionale. Ciò che emerge, nonostante gli evidenti crimini documentati, è che i sistemi legali europei risultano in genere riluttanti ad affrontare questo tipo di casi.

Nonostante tutto, però, nel corso degli ultimi anni ci sono stati persino alcuni progressi. Un tribunale tedesco, ad esempio, ha condannato l’ex ufficiale dell’intelligence siriana Anwar Raglan all’ergastolo per crimini di guerra, dopo che aveva tentato di chiedere asilo nel proprio Paese. Nel 2019, poi, l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump convertì in legge il Caesar Act, che sanziona il governo siriano per i suoi crimini di guerra.

Nonostante ciò, però, come sottolinea bene il documentario questa è comunque una battaglia di Sisifo, impari e squilibrata, e quasi un decennio dopo che Cesare ha rilasciato al mondo le sue prove inconfutabili c’è ancora ben poco da documentare in termini di giustizia effettiva.

Numeri e dittature

Dal 2011 ad oggi il regime siriano ha detenuto più di 100.000 cittadini siriani (e sono numeri certamente in difetto), la maggior dei quali sono successivamente “scomparsi” nel nulla e data la natura particolarmente oppressiva del governo di Bashar al-Assad, è purtroppo quasi impossibile per i parenti scoprire cosa sia successo ai loro cari.

Una situazione molto simile a quella dei “desaparecidos” argentini, fatti scomparire dal generale Videla e dalla sua dittatura negli anni Settanta del secolo scorso. Esattamente come all’epoca, in quel luogo lontano migliaia di chilometri dalla Siria, oggi parlare apertamente e chiedere giustizia può portare velocemente anche a una condanna a morte per sé e per tutta la propria famiglia. Chiedere giustizia in patria, quindi, risulta praticamente impossibile.

The Lost Souls of Syria, con la sua durezza, pone l’attenzione su un argomento estremamente importante e getta un fascio di luce sulla lotta per la responsabilità e il risarcimento che alcuni avvocati e attivisti europei stanno cercando di portare davanti nei tribunali nazionali, purtroppo con scarso successo.

Il montatore del film Sebastien Touta è stato abile nel trasformare anni di filmati e documenti in una narrazione coerente e avvincente, che riesce a catturare le frustrazioni di un sistema labirintico, che afferma di essere comprensivo ma che in realtà non agisce, gettando con questa prolungata attesa di speranze e delusioni nella devastazione più cupa le famiglie delle vittime, rimaste ancora oggi senza risposte.

La sua esplorazione di questa crisi umanitaria incontrollata e le indagini forensi sull’omicidio sanzionato dallo Stato rimangono dolorosamente rilevanti e basterebbe la visione di questo film da parte delle istituzioni europee e internazionali per classificare ciò che sta accadendo in Siria come genocidio.

Vista la poca “importanza” che evidentemente devono avere i cittadini siriani e, al contrario, il “peso” degli alleati di al-Assad (Russia, Cina, Turchia), oltre alle grandi quantità di petrolio che si trovano nel sottosuolo siriano (su cui si sono scatenati gli appetiti di molti Paesi), la comunità internazionale preferisce però girarsi, il più delle volte, dall’altra parte. Come accade per Gaza, oggi, e per tantissimi altri popoli oppressi nel mondo.

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