Racconta il monaco Ilaro che un bel giorno, presso il monastero del Corvo alle foci del Magra, si recò un visitatore ignoto.

“Quando (…) gli chiesi che cosa desiderasse; e giacché egli non mi rispose verbo, prestando invece attenzione solo alla struttura del luogo, gli chiesi di nuovo che cosa volesse (o cosa stesse cercando). Allora egli, dopo aver osservato con circospezione i confratelli con me, disse: pace.”

Il misterioso ospite, nemmeno a dirlo, è Dante. Che questa lettera del monaco Ilaro sia vera o falsa poco importa. Quello che importa è il senso.

In una vita senza pace Dante ha sempre cercato una tregua, alle ingiurie, alle condanne a morte, alla dolorosa povertà. Senza pace e giustizia non può esserci felicità. Questo l’ha sempre avuto ben chiaro. E non solo nella Commedia.

Verso un nuovo Paradiso terreste

Questo lui vedeva nella figura dell’Imperatore. L’unica entità sovranazionale in grado di garantire pace e giustizia. Verso un nuovo Paradiso terrestre. L’Eden come orizzonte politico di una felicità pubblica, alla portata di tutti, possibile. Non solo da morti. Ma soprattutto da vivi.

E spesso sfugge, a noi che lo leggiamo, la forte componente politica del poema. Dante sì scrive 14233 endecasillabi per “allontanare i viventi in questa vita da uno stato di miseria e condurli a uno stato di felicità”, ma questa felicità non va intesa come privata o individuale, ma come felicità collettiva. Io posso essere felice solo quando le altre persone attorno a me sono felici. Ovvio che questa sia una forte responsabilità della politica.

La guerra è una bestia

Di pace in vita Dante ne ebbe ben poca. Forse solo a Verona e Ravenna, città del proprio Paradiso personale (e poetico).

E la guerra fu sempre una delle “bestie” che denunciò nel suo poema epico. Dante la guerra la conosceva bene. Soldato in prima linea, feditore a cavallo, nella battaglia di Campaldino tra aretini e fiorentini, così scrive Leonardo Bruni, “lui (Dante) giovane e ben stimato si trovò nell’armi, combattendo vigorosamente a cavallo nella prima schiera, dove portò gravissimo pericolo (…). Dico che Dante virtuosamente si trovò a combattere per la patria in questa battaglia”.

Ma dove c’è guerra non può esserci pace.

S’el s’aunasse ancor tutta la gente

che già in su la fortunata terra

di Puglia, fu del suo sangue dolente

per li Troiani e per la lunga guerra

che de l’anella fé sì alte spoglie,

come Livio scrive, che non erra,

con quella che sentio di colpi doglie

per contastare a Ruberto Guiscardo;

e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie

a Ceperan, là dove fu bugiardo

ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,

dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;

e qual forato suo membro e qual mozzo

mostrasse, d’aequar sarebbe nulla

il modo de la nona bolgia sozzo.

Siamo nel canto 28 dell’Inferno. Nella bolgia dei seminatori di discordia. E Dante vede una scena da Grand Guignol: anime straziate, amputate, vero e proprio “girone del sangue” pasoliniano.

E per descrivere tutto il sangue che vede, tenta una similitudine. Quello che descrive è un campo di battaglia.

La parafrasi potrebbe essere: “Se anche si radunasse tutta la gente che nella terra travagliata dell’Italia del sud versò il proprio sangue per i Romani e nella lunga guerra che produsse un gran bottino di anelli, come scrive Livio che non sbaglia, con quella gente che fu dolorosamente colpita per opporsi a Roberto il Guiscardo, e con l’altra gente le cui ossa ancora si raccolgono a Ceprano, là dove ogni barone pugliese fu traditore, e là a Tagliacozzo dove il vecchio Alardo vinse con la sua saggezza; e se ognuno mostrasse le sue membra trafitte o mozzate, non sarebbe sufficiente a eguagliare l’aspetto orrendo di questa nona Bolgia”.

Un canto sterminato sull’orrore

Non importa che sappiamo o meno contestualizzare tutti i riferimenti storici che Dante sparge qui a piene mani. “Se anche si radunassero tutte le vittime di questa guerra e di quell’altra e mostrassimo tutte le membra mutilate, tutto questo non basterebbe a eguagliare il sangue e le mutilazioni orrende che io ho visto in questa bolgia”. Questo è il senso.

Ma Dante propone queste cinque terzine, una lunghissima panoramica cinematografica, cinque terzine dove non si prende quasi mai fiato, a rendere in maniera efficace la vastità dell’orrore: una fantasia di Bosch, 15 versi 97 parole, il canto sterminato di corpi squartati.

Questa è la guerra. La guerra per noi è esperienza lontana. È una realtà che noi possiamo scegliere di vedere o meno dai nostri televisori, cambiando canale. Per Dante è realtà viva. Materica.

Fiumi colorati dal sangue

Sono corpi che colorano di rosso i fiumi (“Lo strazio e ’l grande scempio /che fece l’Arbia colorata in rosso”, Inferno 10), sono corpi dispersi e mai più ritrovati (l’episodio di Bonconte da Montefeltro in Purgatorio 5), sono l’immagine dei vinti che si muovono spaventati dopo aver perso un assedio (“così vid’io già temer li fanti /ch’uscivan patteggiati di Caprona, /veggendo sé tra nemici cotanti”, in Inferno 22).

Tutte esperienze che Dante ha presente o come testimone diretto o perché si trattano di esperienze molto vicine a lui. Ma le guerre alla fin fine sono guerre fratricide, lotte interne, intestine.

Superbia, invidia, avarizia

Come i corpi vengono sezionati, “partiti” (questa è l’espressione dantesca), così anche in ogni città, in ogni comunità, c’è la tensione a “parteggiare”, a separare, a scindere, a fratturare.

Firenze, ma l’Italia tutta, “serva” dei propri vizi politici, che Dante denuncia sono realtà “partite”, lacerate profondamente al loro interno.

E perché questo avviene?

superbia, invidia e avarizia sono

le tre faville c’hanno i cuori accesi

Questa pare essere la ricetta più semplice, banale, e più vera per denunciare realtà complesse.

La guerra avviene a causa di queste tre scintille dia-boliche (ovvero “separanti”): un signore, un leader, un gruppo, uno stato si crede migliore di altri (superbia); ed essendo migliore degli altri non può tollerare che altre realtà, attorno, possano essere felici (invidia); e se mi reputo migliore e se reputo che nessuno possa essere felice attorno a me, naturale, che io voglia prendere con la forza quello che altrui (avarizia).

Questo è il nucleo di tutto. Dante propone anche un antidoto, la “dieta” del Veltro:

Questi non ciberà terra né peltro,

ma sapïenza, amore e virtute

Coltivare l’anima è scelta politica

Sembra utopia, retorica, buonismo, lo so. Il sospetto può esserci nei nostri tempi cinici e disillusi. Ma potrebbe essere anche interessante per capire il comportamento di un leader, di un gruppo politico. Quasi un termometro per valutare l’“aria che tira” in una città o in uno Stato o in un popolo.

Quanto delle scelte di un leader, gruppo, nazione sono orientate a “superbia, invidia e avarizia” e quante a “sapienza, amore e virtù”. In fondo, alla fine, è sempre questione di cultura.

Di come scegliamo di coltivare le nostre anime. Di come scegliamo di orientare il nostro mondo interiore. Il nostro clima affettivo e relazionale. E questa è una scelta politica.

Dante lo sapeva bene. E in settecento anni, non pare essere stato ascoltato un granché.

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