Vita pacifica brutalmente interrotta dall’invasione degli uomini armati. Bombardamenti che obbligano i civili a correre nei rifugi. Completa incertezza su cosa stia succedendo e quanto possa durare l’allarme. Queste situazioni sono difficili da vivere la prima volta: la seconda diventano ancora più pesanti. Per molti ebrei ucraini l’incubo del 24 febbraio 2022 si è ripresentato all’alba del 7 ottobre 2023, nel giorno del cinquantenario della guerra di Yom Kippur, quando la quiete di una mattina festiva è stata spezzata dal barbaro attacco.

Ucraina a fianco di Israele

L’Ucraina non ha avuto dubbi da che parte schierarsi: ha imparato a proprie spese cosa significhi subire attacchi sul proprio territorio. In segno di solidarietà, le bandiere israeliane sono state proiettate sui palazzi di Kyiv, Odessa, Leopoli, Dnipro. La gente ha portato spontaneamente i fiori all’ambasciata. Numerosi video arrivano da parte dei militari e poliziotti, che trovano tempo anche sul fronte per esprimere la loro solidarietà.

Eppure, il rapporto fra i due Paesi è lontano dalla perfezione: la solidarietà corre più veloce fra i popoli che fra i governi, anche perché in Israele vive mezzo milione di oriundi ucraini, e fra loro qualche decina di migliaia sono ucraini etnicamente.

Anche a causa di questa alta percentuale, secondi solo agli americani, gli ucraini detengono il triste primato per il numero di vittime straniere uccise nel primo giorno di attacco: alla data del 18 ottobre, sono 28 morti accertati. A loro vanno aggiunti tre ucraini, di cui due minorenni, morti in seguito ai bombardamenti a Gaza.

Fra le vittime sul territorio israeliano, Serhii Hredeskul, un ricercatore di fama mondiale, immigrato dall’Ucraina in Israele nel 1991 per insegnare all’Università di Beer-Sheva. All’età di 80 anni credeva di aver trovato un approdo sereno ad Ofakim. Sia lui che sua moglie, professoressa universitaria anche lei, sono stati uccisi dai terroristi il 7 di ottobre.

Manifestanti in sostegno di Israele a Ginevra davanti all’ufficio delle Nazioni Unite, foto di Eric Bridiers, Flickr.

Partire o restare?

Il giorno dopo l’attacco, è cominciato un movimento di persone bidirezionale. I riservisti israeliani hanno interrotto la vacanza per ricongiungersi con il loro reparto militare. Fra loro, ad esempio, Viktor Fridman, nome in battaglia Wolf, immigrato in Israele dall’Ucraina anni fa. Preparato dal servizio nell’esercito israeliano, nel 2022 era tornato in Ucraina a combattere come volontario. Dopo aver lasciato l’esercito in seguito ad una contusione, si è sposato e si è dedicato agli aiuti umanitari. Avrebbe potuto restare in disparte, ma è tornato in Israele subito dopo l’inizio dei combattimenti.

C’è anche chi per prima cosa ha deciso di andarsene, solo che nel caso degli ucraini, la casa spesso non c’è più. Così gli ucraini che avevano deciso di rifugiarsi in Israele si sono trovati fra l’incudine e il martello. A loro vanno aggiunti anche 350 ucraini intrappolati nel settore Gaza. Viste le circostanze, tirarli fuori da lì è un compito arduo.

Invece da Israele, grazie agli sforzi dei diplomatici, dal 7 ottobre sono ripartiti 3,5 mila ucraini. Circa 500 di loro hanno fruito dei voli charter dell’ambasciata. Ucraina, Moldavia e Romania hanno unito gli sforzi per organizzare la logistica di questi salvataggi. Altre 700 persone circa aspettano l’occasione per trarsi in salvo. Ma la maggior parte degli ucraini d’Israele, che sono circa 25 mila, preferiscono rimanere vicino ai loro cari, anche se ciò significa affrontare di nuovo l’angoscia dei bombardamenti.

Avere due patrie in guerra

Cosa pensano del fatto che Israele ha dato un sostegno assai tiepido al loro Paese, nonostante le richieste di aiuto? Per chi conosce bene entrambi le nazioni non c’è l’ombra di risentimento.

S., ebreo ucraino emigrato con i suoi due figli in Israele da 7 anni, afferma di non aver mai vissuto una situazione talmente grave. Per lui è chiaro: «È una guerra scatenata non tanto da Hamas, quanto dai loro protettori. Russia e Iran hanno fornito soldi e istruttori militari». Nella drammaticità della situazione, trova anche un lato buono: «Finalmente il governo di Israele si renderà conto che la Russia è la fonte del terrorismo in tutto il mondo. Servirà di monito anche al resto del mondo democratico. Ora sarà più evidente il collegamento fra le dittature. Se la democrazia verrà sconfitta in Ucraina ed Israele, sarà più  facile sconfiggerla in altri Paesi».

Non ha paura che il mondo si concentri solo su Israele? «Certo, in queste settimane gli eventi in Israele suscitano reazioni più forti rispetto alla guerra in Ucraina, che ormai segue il suo corso. Ma non siamo in concorrenza, perché il tipo di armamenti che ci serve è diverso».

Una famiglia di Zhytomyr, Ucraina, arriva in Israele dopo essere fuggita dall’Ucraina il 6 marzo 2022. Credito: Chabad.org.

Eppure il sistema antimissile lron Dome sarebbe tornato utile per proteggere anche le persone rimaste in Ucraina. «Per me il rifiuto di fornirlo è una scelta giusta, vista la complessità e la segretezza dei sistemi della difesa moderni. Non sempre sono facili da esportare in zone diverse da quelle per cui erano sviluppati».

Testimonianza delle donne

Anche N., profuga ucraina in Israele, non ci vede nulla di strano: «In confronto all’Ucraina, Israele è minuscolo, circondato da Paesi nemici. Aveva poche riserve e molti problemi da gestire. Capisco se non hanno voluto condividerle. Per me è sufficiente sapere che hanno fatto entrare i profughi come noi, senza distinzione di etnia, e in parallelo hanno fornito soccorsi medici e le cure ai nostri feriti per riabilitazione e protesi».

Lei che ha vissuto i primi mesi di invasione russa a Kharkiv, ammette: «Gli ucraini che hanno vissuto i bombardamenti prima di fuggire sono ora spaventati. Ma nello stesso tempo, riconoscono la stessa mano dietro queste azioni, per niente improvvisate. Hamas uccideva chiunque a prescindere dall’origine. I tailandesi che lavoravano come badanti, era palese che non sono ebrei, eppure, sono stati uccisi lo stesso, perché cooperavano con gli italiani. Volevano un casus belli per precludere la normalizzazione dei rapporti con i vicini». Lei e la sua famiglia cercano di mantenere la calma, ma «l’aeroporto è uno solo», aggiunge N.

Non sempre i compromessi danno il risultato sperato. Abituato a vivere circondato dai nemici, il governo israeliano ha cercato di evitare passi falsi, scegliendo la neutralità. I tentativi di rabbonire la Russia hanno sortito il risultato contrario: quello di mostrare Israele debole e quindi una preda facile. Gli israeliani non hanno voluto fornire armi agli ucraini, nonostante le ripetute ed esplicite richieste di Zelenskyi, per timore che i loro armamenti sofisticati potessero capitare nelle mani sbagliate. Ora che sono state depredate le postazioni militari, questo incubo si è avverato.

T., ebrea ucraina, è rientrata a Kharkiv in agosto, dopo un anno in Israele, lasciando lì la metà della sua famiglia. È una donna coraggiosa: pur sapendo che l’inverno a Kharkiv sarà di nuovo all’insegna di blackout, ha preferito rientrare, anche se in Israele aveva casa e lavoro. Ora è sincera e non nasconde la sua paura e il timore che l’Ucraina verrà dimenticata.

Ma non è risentita per il fatto che Israele non ha accolto le richieste d’aiuto dall’Ucraina? Secondo T. è la conseguenza logica di una lunga storia preesistente: l’Ucraina ha sempre votato contro Israele nell’Onu, seguendo le orme della Federazione Russa, e le cose non sono cambiate né dopo l’invasione russa, né dopo l’elezione di un ebreo alla presidenza del Paese. «Spero che ora gli ucraini tireranno le somme e agiranno di conseguenza».

Azione e reazione

Con le dovute differenze e proporzioni, lo scenario delle due guerre è simile: l’attacco all’alba, lo shock iniziale, l’indignazione, la mobilitazione. I riservisti che raggiungono i loro reparti e i civili che corrono ad aiutarli. Bottigliette d’acqua, cioccolata, giubbotti antiproiettile, pasti gratis ai militari nei fast-food, droni, biancheria, occhiali protettivi, sangue per le trasfusioni, medicine da procurare subito, donazioni per i bisogni concreti ai piccoli gruppi dei volontari affidabili.

Ma ci sono anche esigenze molto specifiche, come la necessità di continuare a mungere le mucche delle fattorie del Sud abbandonate, o ricercare se per caso fra gli ostaggi ci sia qualcuno con doppia cittadinanza: chi è cittadino straniero ha più chance ad essere salvato.

In parallelo alla frenesia organizzativa, si sviluppa la teoria infinita dei morti: i loro volti, i nomi, le candele e i fiori. I parenti degli uccisi che piangono, toccando le foto esposte per strada. I parenti dei rapiti che contano i giorni al loro ritorno. I medici forensi sconvolti dai cadaveri mutilati. Le persone scomparse che sorridono dalle foto incorniciate di nero.

Qualche giorno dopo arriva il momento di elaborazione del lutto: i racconti dettagliati di chi è sopravvissuto, consacrazione dei nuovi eroi, sia militari che semplici cittadini di ogni etnia, che si sono messi a salvare le vite rischiando la propria. Si allungano le liste strazianti degli ostaggi, l’infinita conta dei morti. L’inno cantato dai balconi, la sensazione di essere uniti dentro il Paese e nello stesso tempo osteggiati dal resto del mondo. Ci sono i primi matrimoni, le prime nascite, che diventano un evento da celebrare insieme.

Nel mondo, è soprattutto la diaspora a darsi da fare: si organizzano manifestazioni e flashmob, a cui partecipa chi è coinvolto di persona, mentre la maggioranza rimane indifferente. Chi non lo è, si lascia trascinare dal doom scrolling che toglie il sonno: sui social è un flusso infinito di immagini autentiche e crudeli, mescolate a vecchie vignette e video strappalacrime che servono a confondere le idee, a demoralizzare e disinnescare le testimonianze vere, facendoci annegare nella melma delle notizie.

Un crudele déjà-vu

Chi ha già vissuto l’invasione russa, vede gli eventi successivi al 7 ottobre 2023 come un crudele déjà-vu. Per gli ucraini, che hanno già vissuto tutte queste tappe, osservare da lontano la guerra in corso in Israele è come guardare un remake esotico del serial nostrano, purtroppo già visto dalla distanza ravvicinata. Per la comunità degli ebrei ucraini, invece, che siano residenti in Israele di lunga data o i profughi arrivati l’anno scorso, è la seconda stagione dello stesso serial, stessa regia con nuovi attori, dove le tinte sono ancora più forti e i crimini ancora più efferati del primo.

Il presidente ucraino Zelensky e il promo ministro israeliano Natanyahu nel 2020.

Non è solo una nuova ferita, inferta al corpo ancora sanguinante dalle ferite precedenti: è una traumatizzazione reiterata che va a sovrapporsi ai secoli di persecuzioni. È il punto più basso di una “speranza vecchia mille anni”, che consisteva nella realizzazione di un desiderio molto semplice: con le parole dell’inno israeliano, “vivere da uomini liberi in propria terra”, o, con quelle dell’inno ucraino “vivremo anche noi, fratelli, nel proprio Paese”.

È anche la fine di più di un mito: della possibilità di normalizzare i rapporti con i paesi arabi; dell’utilità del dialogo interreligioso; dell’idea che la pace possa essere comprata con i sussidi e concessioni, e infine il mito della invincibilità dell’esercito israeliano e della onniscienza della sua intelligence.

I primi a morire fra gli israeliani sono stati proprio coloro che rinnegavano l’odio e la violenza: i ragazzi del rave party nel deserto, sgozzati all’alba. Con loro è morta la speranza di una normalizzazione nella regione, e si è aperto un secondo fronte.

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